Aggiornamento 13-ago-2025

Ottimizzato per Google Chrome

 

 

Gdl 7&13     Comitato Scientifico     Comitato di redazione       I link     

Murales di Bansky per Venezia

 

Sviluppo sostenibile                        Storia e tendenze                     La Green economy                  L'Agenda 2030                 Bibliografia

cambiamenti globali                     Clima           Energia          Trasporti          Territorio
    INDICATORI e metodologie                           OLTRE IL PIL

 

Global sustainability offers the only viable path to human safety, equity, health, and progress. Humanity is waking up late to the challenges and opportunities of active planetary stewardship. But we are waking up. Long-term, scientifically based decision-making is always at a disadvantage in the contest with the needs of the present. Politicians and scientists must work together to bridge the divide between expert evidence, short-term politics, and the survival of all life on this planet in the Anthropocene epoch. The long-term potential of humanity depends upon our ability today to value our common future. Ultimately, this means valuing the resilience of societies and the resilience of Earth’s biosphere

Our Planet, Our Future. Nobel Prize Laureates and Other Experts Issue Urgent Call for Action. April 29, 2021

 

 

COMITATO SCIENTIFICO

DELLA FONDAZIONE PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE

Lo sviluppo sostenibile in Italia e nel mondo

 

29 maggio 2025: La riforma dell’Agenda 2030 e l’aggiornamento degli SDG nel pieno della crisi delle Nazioni Unite

Studio preliminare di Toni Federico

 

Questo lavoro è una apertura di discussione basata su una letteratura internazionale che comincia ad assumere una dimensione importante a fronte di quella che si configura addirittura come una crisi della fiducia dell’umanità nel proprio destino. La sede italiana più qualificata per questo approfondimento è certamente ASviS, custode nazionale dell’Agenda 2030.

Il sistema delle Nazioni Unite, l’unico riferimento per una governance mondiale o, quantomeno, per contrastare le crisi più gravi, resta basato sull’Assemblea Generale e sul Consiglio di sicurezza. L’Assemblea vota con un sistema di maggioranze qualificate e per tutti i paesi uno vale uno, indipendentemente dal coinvolgimento, dalle dimensioni e dal reddito. Dopo il 2012, anno di Rio+20, anche lo Sviluppo sostenibile, tematica introdotta all’Earth Summit a Rio nel 1992, passa nelle mani dell’Assemblea generale alla quale va riconosciuto il merito dei grandi balzi in avanti come l’Agenda del Millennio con gli MDG e quella del 2015 con l’Agenda 2030 e gli SDG. Siamo oltre la metà strada per il 2030 ed è il momento di valutare l’efficacia, le prospettive e la eventuale riforma degli SDG.

Le nazioni del mondo non trovano più la strada per unirsi nei loro sforzi e salvare il pianeta dalle crisi ambientali. Negli ultimi mesi, i negoziati delle Nazioni Unite per affrontare il cambiamento climatico, l'inquinamento da plastica, la perdita globale delle specie e un numero crescente di attacchi di desertificazione, sono falliti del tutto o hanno prodotto risultati limitati inutili rispetto alla portata dei problemi. Sono passati tre anni da quando Greta Thunberg ha liquidato i colloqui globali come "bla-bla-bla", che è diventato un grido di battaglia per i giovani ambientalisti.

L'Associated Press ha intervistato più di 20 esperti che hanno registrato la crisi definitiva dell'ambientalismo multilaterale a causa del macchinoso processo di consenso, del potere dell'industria dei combustibili fossili, dei cambiamenti geopolitici e delle enormi dimensioni dei problemi che si stanno cercando di risolvere. Non mancano progressi, soprattutto sul cambiamento climatico, ma sono troppo pochi, troppo lenti e a passi incerti. Peraltro il DG dell’UNEP, e come lui gran parte degli analisti, vedono il multilateralismo come l'unico modo in cui le nazioni più piccole e povere possono ancora avere un posto al tavolo con i potenti paesi ricchi.

Siamo ben lontani dai giorni di speranza del 1987, quando il mondo adottò un trattato che, con il Protocollo di Montreal, sta arrestando la pericolosa perdita di ozono stratosferico mediante il phase out di alcune sostanze chimiche. A valle di questa esperienza il vertice della Terra di Rio del 1992 istituì un sistema delle Nazioni Unite per negoziare i 4

problemi ambientali, in particolare i cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità e la desertificazione articolato attraverso le Conferenze periodiche delle Parti o COP.

La COP sulla biodiversità a Cali, in Colombia, a ottobre 2024 si è esaurita, concludendosi senza un grande accordo, se non quello di dare riconoscimento agli sforzi dei popoli indigeni. La COP sui cambiamenti climatici di novembre a Baku, in Azerbaigian, ha raggiunto sulla carta il suo obiettivo principale di aumentare i finanziamenti per le nazioni povere per far fronte al riscaldamento globale, ma la cifra limitata ha lasciato profondamente insoddisfatte le nazioni del Sud del mondo. Per 27 anni, gli accordi sui negoziati sul clima non hanno mai menzionato specificamente i combustibili fossili come causa del riscaldamento globale, né hanno chiesto la loro eliminazione. L’anno scorso a Dubai, si era finalmente arrivati al concetto della transition away dai combustibili fossili, non più ripreso a Baku a fine 2024.

Un incontro sull'inquinamento da plastica, a Busan in Corea del Sud, ad una settimana da Baku, ha fatto sì che molte nazioni dicessero di voler fare qualcosa, che alla fine non hanno fatto. E anche la conferenza sulla desertificazione a Riyadh, in Arabia Saudita, non è riuscita a raggiungere un accordo su come affrontare la siccità. Un fallimento generale, ha affermato Johan Rockström, direttore del Potsdam Institute for Climate Impact Research in Germania. Nove anni fa, quando più di 190 nazioni si riunirono per adottare lo storico accordo di Parigi, i paesi avevano una visione che implicava che un pianeta sano sarebbe stato un vantaggio per tutti, ma se ne è persa la traccia.

Inevitabile la citazione di Churchill da parte dell’ex presidente dell'Irlanda Mary Robinson: "Il sistema delle Nazioni Unite è il peggior sistema, fatta eccezione per tutti gli altri".

LEGGI L'INTERO STUDIO

TORNA SU

 

Dicembre 2024. La guerra ha posto fine all'illusione dello sviluppo sostenibile e degli SDG?

Un gruppo di ragazzi cinesi, senza dare i giudizi morali e politici che pur sarebbero d'obbligo, si misurano con il compito accademico di quantificare il danno inferto dalle guerre. Il risultato fa sorridere per il suo ottimismo.

 

Con i conflitti armati globali che hanno raggiunto il livello più alto degli ultimi 30 anni nel 2023, è fondamentale comprendere il loro impatto sul progresso degli SDGs. I risultati indicano che, rispetto agli scenari ipotetici senza conflitto, i progressi su più della metà degli SDGs sono rallentati di oltre il 5% nei paesi che subiscono conflitti armati. Questo rallentamento è più acuto nell'SDG 9 (Industria, innovazione e infrastrutture) e nell'SDG 4 (Istruzione di qualità), dove gli impedimenti superano il 10%. Senza tali conflitti, questi paesi avrebbero potuto registrare progressi in più di un terzo degli SDGs, passando da livelli bassi a moderati, o da livelli moderati ad alti di raggiungimento.

L'Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2015, dichiara la pace e la sicurezza come prerequisiti per raggiungere una serie di SDGs. I conflitti non solo causano vittime dirette e la distruzione delle infrastrutture, ma minano anche indirettamente la capacità di nazioni e regioni di raggiungere gli SDGs attraverso recessioni economiche, instabilità sociale e crisi dei rifugiati. Questi effetti sono spesso duraturi e complessi, con il recupero e la ricostruzione post-conflitto che richiedono costi economici e sociali significativi, spesso in condizioni di gravi vincoli di risorse. I conflitti armati interrompono aree critiche di sviluppo di una nazione, in particolare quelle strettamente legate agli SDGs, come istruzione, sanità e infrastrutture. Ad esempio, scuole e ospedali sono spesso presi di mira durante i conflitti, con conseguente interruzione dell'istruzione e crollo dei servizi sanitari, che fanno regredire lo sviluppo di una nazione di anni o addirittura decenni. Inoltre, i conflitti portano a uno sfollamento su larga scala della popolazione, con molti rifugiati costretti a lasciare le loro case, bloccando la crescita economica locale e esacerbando povertà e disuguaglianza. In questo contesto, i conflitti armati influenzano direttamente specifici SDGs, come la riduzione della povertà, la buona salute e il benessere e l'istruzione di qualità, minando al contempo indirettamente il raggiungimento di altri SDGs destabilizzando la governance nazionale e l'ordine sociale.

Nonostante i continui sforzi della comunità internazionale nel fornire aiuti e nella ricostruzione post-conflitto, l'impatto complessivo dei conflitti sul progresso degli SDGs rimane grave. Pertanto, valutare sistematicamente l'impatto dei conflitti armati sugli SDGs è fondamentale affinché i paesi colpiti dai conflitti possano superare le sfide dello sviluppo.

Sono stati impiegati una varietà di metodi per valutare l'impatto dei conflitti armati sul progresso verso il raggiungimento degli SDGs. I metodi quantitativi tradizionali, come l'analisi di regressione lineare, utilizzano principalmente dati panel tra paesi per esaminare l'impatto dei conflitti sugli indicatori socio-economici15. Sebbene questi metodi possano rivelare correlazioni statistiche tra conflitti e sviluppo sostenibile, spesso faticano ad affrontare i problemi di endogeneità inerenti agli studi sui conflitti a causa della complessità dei conflitti e della diversità dei fattori che li influenzano. Ad esempio, i conflitti sono tipicamente associati a fattori come la povertà e l'instabilità politica, che non sono solo potenziali cause di conflitto, ma influenzano anche i risultati degli SDGs, rendendo difficile per i modelli di regressione identificare con precisione gli effetti causali del conflitto.

Per affrontare queste limitazioni, negli ultimi anni sono stati sempre più applicati i metodi di inferenza causale. Questi metodi consentono un'identificazione più precisa degli impatti causali costruendo esperimenti quasi-naturali. Tuttavia, questi approcci presentano dei limiti quando si tratta di campioni eterogenei o dati mancanti, in particolare nelle zone di conflitto dove la raccolta dei dati è difficile20. Inoltre, la casualità e la complessità dei conflitti fanno sì che il bias di selezione rimanga una sfida significativa negli studi osservazionali21. Per migliorare ulteriormente l'accuratezza delle stime causali, i ricercatori hanno introdotto il propensity score matching (PSM), un metodo progettato per controllare meglio i fattori confondenti. Il PSM abbina regioni colpite da conflitti e non colpite da conflitti in base alle loro caratteristiche, consentendo così una valutazione più accurata dell'impatto dei conflitti. Il metodo prevede la costruzione di un modello di propensity score che converte la probabilità di occorrenza di un conflitto in un valore numerico, seguito dall'abbinamento dei campioni in base a questi punteggi, il che aiuta a mitigare il bias di selezione presente nei modelli di regressione tradizionali.

Rivelando queste differenze e le loro dinamiche, i paesi colpiti da conflitti armati possono identificare gli SDGs di sviluppo prioritari e comprendere i loro andamenti nel tempo. Nello specifico, questo studio ha affrontato tre domande principali:

  • In primo luogo, quale sarebbe il progresso di ciascuno dei 17 SDGs nei paesi colpiti da conflitti armati se non ci fossero conflitti?

  • In secondo luogo, ci sono differenze nell'impatto dei conflitti armati sul progresso dei 17 SDGs?

  • In terzo luogo, quali SDGs sono maggiormente colpiti dai conflitti armati e come cambia questo impatto nel tempo?

Per affrontare questi problemi, abbiamo utilizzato i dati del Rapporto UN SD 2022. Nel frattempo, abbiamo utilizzato dati a livello nazionale sui conflitti armati statali. A differenza degli impatti localizzati di altri tipi di conflitto, come i conflitti non statali e la violenza unilaterale, gli impatti dei conflitti armati statali sono spesso a livello nazionale32. Per valutare il potenziale impatto dei conflitti armati sul progresso degli SDGs a livello nazionale, abbiamo confrontato il progresso effettivo degli SDGs con il progresso controfattuale nello scenario senza conflitto nei paesi colpiti da conflitti. Abbinando paesi con punteggi simili, isoliamo efficacemente l'impatto dei conflitti armati sul progresso degli SDGs. I risultati hanno fornito una comprensione più completa e dettagliata dell'impatto dei conflitti armati sul progresso verso gli SDGs, offrendo spunti che possono aiutare i paesi colpiti da conflitti a identificare le direzioni chiave per lo sviluppo.

LEGGI L'INTERO STUDIO

TORNA SU

 

 

8 novembre 2024. Si apre la 29 COP climatica a Baku. Nere prospettive. Nel 2025 il limite degli 1,5 °C di Parigi verrà superato

La violenza dell’impatto climatico è in crescita oltre ogni previsione. Le vittime di Valencia sono paragonabili a quelle delle guerre in corso.  Valencia, immagine del progresso e delle speranze dell'umanità con la sua architettura futuribile di Santiago  Calatrava, è ora ridotta alla squallida rappresentazione dell'impotenza del genere umano a salvare se stesso (in figura un particolare). Preoccupa però il diffondersi di una forma di rassegnazione che, pur se alimentata dal ricco sistema mondiale dell’oil and gas e fatta propria in occidente da taluni schieramenti politici, rischia da sola di vanificare lo sforzo immane profuso in trent’anni nel negoziato internazionale multilaterale sul clima. L’Emissions Gap Report 2024 dell’ UNEP conferma la perdurante crescita delle emissioni GHG, arrivate a 57 GtCO2eq nel 2023, e con essa delle concentrazioni in atmosfera e, per diretta conseguenza, della temperatura media superficiale terrestre e marina, con punte oltremisura proprio nelle zone temperate di cui fanno parte l’Europa e il bacino mediterraneo. L’obiettivo degli 1,5 °C di Parigi a fine secolo viene quasi universalmente giudicato fuori portata, anche negli interventi ufficiali. Il mediterraneo salirà sopra gli 1,5 gradi nel 2025.Valencia

In questo quadro si prepara a Baku una COP 29 in tono minore. Il check degli impegni assunti dai vari paesi, gli NDC, avverrà infatti solo il prossimo anno alla COP 30 in Brasile. Ai governi è stato richiesto di rivedere al rialzo entro il 2025 i propri livelli di ambizione che ad oggi farebbero fallire l’obiettivo di Parigi, e a presentarne di nuovi per il 2035, anno in cui le emissioni globali, che ancora oggi continuano a crescere, dovrebbero essere ben del 60% più basse rispetto a quelle del 2019. L’Europa ha comunicato un promettente abbattimento delle emissioni dell’8,3% nel 2023 confermando il suo impegno immutato sulla transizione ecologica. Le elezioni americane, però, riportano uno dei peggiori negazionisti alla guida di un grande paese e suscitano gravi preoccupazioni. Al proposito Reuters segnala che i leader mondiali delle principali economie come l'Unione Europea, gli Stati Uniti e il Brasile hanno in programma di disertare la COP 29. La Cina resta paradossalmente con l’Europa alla frontiera del clima, ma ha chiesto ai paesi di discutere off the records a Baku sulle tasse di confine sul carbonio che sarebbero dannose per i paesi in via di sviluppo. Alcuni documenti dalla Cina sollevano il timore che le crescenti tensioni commerciali tra le principali economie potrebbero bloccare i colloqui di Baku.

Al di fuori delle negoziazioni formali, le COP sono spazi in cui governi, settore privato e società civile possono impegnarsi in una collaborazione autentica per promuovere l'azione per il clima. Molte sono state le acquisizioni dei vertici recenti, come gli impegni per incrementare le energie rinnovabili, ridurre gradualmente i combustibili fossili, promuovere l'azione per il clima nelle città, rendere green il settore finanziario, fermare la deforestazione e altro ancora. La maggior parte dei paesi non dispone però di strutture di monitoraggio dell’azione dei governi e degli altri soggetti. La COP 29 è un'opportunità per dimostrare un reale progresso sui numerosi impegni presi finora. Per le iniziative esistenti, ciò significa comunicare pubblicamente i progressi attraverso il Global Climate Action Portal dell'UNFCCC o pubblicando relazioni adeguate. Ciò aiuterebbe a far progredire la comprensione del ruolo che gli sforzi cooperativi possono svolgere nel supportare azioni ambiziose. In concreto, quali sono gli obiettivi attribuiti alla COP 29?

Dare un nuovo obiettivo al finanziamento per il clima. La COP 29 sarà una sorta di COP finanziaria, incentrata sull'adozione di un nuovo improbabile obiettivo di finanziamento per il clima, il NCQG che sostituirà il precedente obiettivo annuale di 100 miliardi di dollari stabilito nel 2009 a Copenhagen e tuttora inevaso. Dovrebbe essere rivalutato l'importo e il tipo di finanziamento che i paesi in via di sviluppo ricevono per sostenere la loro azione per il clima. Il quadro internazionale e la nuova alleanza dei BRICS complicano le cose. In effetti, molti paesi in via di sviluppo non possono mantenere o rafforzare i loro impegni climatici senza sostegni. Ma i paesi occidentali, da sempre restii a far fronte alle responsabilità che sono essenzialmente le loro, non mancheranno di sfruttare il pretesto della crisi geopolitica per non fare fronte agli impegni vecchi e a quelli nuovi.

I dialoghi tecnici degli ultimi tre anni, volti a dare forma al NCQG, lasciano sul tavolo questioni fondamentali sulle dimensioni e la struttura dell'obiettivo. Una decisione chiave è a quale cifra punterà il NCQG, quantificato da volta a volta da miliardi a trilioni su base annua. Per ora sembra probabile che NCQG consisterà in più obiettivi che riflettono diversi tipi di flussi finanziari pubblici e privati. Resta da definire, e non è poco, quali paesi forniranno finanziamenti, se saranno favoriti determinati strumenti finanziari come sovvenzioni o prestiti agevolati e quale rendicontazione sarà richiesta per promuovere la trasparenza.

Aumentare l’ambizione degli impegni nazionali per il clima. I paesi dovranno annunciare i loro nuovi impegni nazionali sul clima (NDC) solo nel 2025. Diversi grandi emettitori, Brasile, Regno Unito ed Emirati Arabi Uniti annuncerebbero i loro nuovi NDC alla COP di quest'anno. I nuovi NDC dovrebbero includere nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni GHG per il 2035, aumentare quelli del 2030 e mettere i paesi su percorsi credibili per raggiungere le emissioni zero nette intorno alla metà del secolo. Per stimolare cambiamenti di così vasta portata, gli NDC dovrebbero stabilire obiettivi specifici per settore, energia, trasporti, agricoltura, in coerenza con il Global Stocktake della COP 28. A Baku si potrà al più tentare di coinvolgere il settore privato per aiutare a indirizzare più finanziamenti verso l'azione per il clima.

Maggiori finanziamenti per perdite e danni. La crisi climatica è ingigantita al punto che alcuni impatti vanno già oltre ciò a cui le persone possono adattarsi, come la perdita di vite umane e mezzi di sostentamento a causa di inondazioni estreme e incendi boschivi o la scomparsa di siti patrimoniali costieri a causa dell'innalzamento del livello del mare. Nei negoziati sul clima delle Nazioni Unite, il termine usato è loss and damage. Il primo giorno della COP 28 è stato avviato il Fondo per rispondere alle perdite e ai danni (FRLD). Da allora, la Banca Mondiale ha assunto il ruolo di fiduciario, le Filippine sono state scelte come paese ospitante per il consiglio del Fondo e Diong è stato nominato primo direttore esecutivo. Il passo successivo è riempire le casse del fondo. Alla COP 28 sono stati promessi circa 700 M$; è un inizio, ma nulla in confronto ai 580 G$ di danni legati al clima che i paesi in via di sviluppo potrebbero dover affrontare entro il 2030. Un piano di mobilitazione delle risorse dovrebbe essere attivo entro il 2025. Alla COP 29, i paesi sviluppati dovrebbero annunciare nuovi impegni, eventualmente inseriti nel NCQG, in modo che il sostegno possa iniziare a fluire verso i paesi bisognosi, ma le ombre scure delle divisioni geopolitiche si allungano sul negoziato proprio nell’anno delle terribili inondazioni nel Rio Grande do Sul, in Emilia e a Valencia.

Adeguare il finanziamento per l'adattamento nell’ottica della definizione di un obiettivo globale. Alla COP 29 i paesi dovrebbero anche lavorare per colmare il divario finanziario per l'adattamento, che attualmente si aggira intorno ai 194 - 366 G$ all'anno in crescita. Nel 2021 i paesi hanno concordato di raddoppiare il finanziamento per l'adattamento entro il 2025 come parte del Glasgow Climate Pact. La Convenzione climatica sta preparando un rapporto per la COP 29 per documentare i progressi verso questo obiettivo, come sollecitato dal Global Stocktake dell'anno scorso. A Baku, con il NCQG, i finanziamenti per l'adattamento dovrebbero essere messi alla pari con quelli per la mitigazione e gli interessi sui prestiti dovrebbero essere ridimensionati. Del pari si dovrebbe tentare di dare forza all'obiettivo globale sull'adattamento (GGA), che si vuole che assuma un rilievo politico pari agli 1,5 °C di Parigi. Alla COP 28, i paesi avevano stabilito gli obiettivi da raggiungere entro il 2030 e avviato un programma di lavoro biennale per determinare come saranno misurati gli sforzi di adattamento. Alla COP 29, i negoziatori tenteranno di raggiungere un accordo su un set gestibile di indicatori per monitorare i progressi e i flussi finanziari sia a livello nazionale che locale.

Sfruttare i mercati del carbonio per guidare l'azione per il clima. L'articolo 6 dell'accordo di Parigi consente ai paesi di scambiare crediti di carbonio per raggiungere i propri obiettivi climatici nazionali. I paesi ricchi di foreste pluviali tropicali potrebbero vendere crediti per generare fondi per la protezione delle foreste che i paesi che acquistano i crediti potrebbero dedurre nei propri NDC. Le regole sul funzionamento di questi mercati dovranno essere definite prima che gli scambi possano iniziare in un assetto capace di garantire che i mercati del carbonio, disciplinati da standard internazionali, siano ecologicamente validi e non rischino di compromettere i tagli alle emissioni globali. Si tratta di cosa assai diversa dai mercati volontari dell’offsetting che hanno dato in questi anni più scandali che risultati

Fallito alla COP 28 l’accordo sulle regole dell'articolo 6, le parti hanno fatto alcuni progressi nel trovare un terreno comune. L'organismo di vigilanza per il nuovo meccanismo di accreditamento dell'accordo di Parigi è il PACM, che gestirebbe l'accredito del carbonio tra i paesi e che ha recentemente concordato due standard sui requisiti metodologici e sulle attività che comportano rimozioni ecosistemiche. Ha anche stabilito che tutti i progetti devono rispettare le tutele ambientali e dei diritti umani. A Baku si dovrà stabilire se il PACM andrà avanti; come affrontare l'autorizzazione dei crediti di carbonio; se un paese può revocare l'autorizzazione dei crediti; se i crediti dovranno passare attraverso un processo di revisione tecnica prima di poter essere utilizzati e se i paesi in via di sviluppo con risorse limitate possono o meno utilizzare il registro del commercio internazionale per le transazioni sui crediti.

Rafforzare la trasparenza intorno alle azioni nazionali per il clima. La trasparenza è un principio cardine dell'accordo di Parigi, tanto che i paesi sono tenuti a presentare i loro primi rapporti biennali sulla trasparenza (BTR) entro la fine di quest’anno. In questi rapporti i paesi chiariranno le modalità dei loro sforzi per ridurre le emissioni di gas serra; i loro progetti e piani di adattamento e quanto sostegno finanziario hanno fornito, mobilitato, ricevuto o di cui hanno bisogno. Dettaglieranno anche i progressi che i paesi stanno facendo verso i loro obiettivi NDC del 2025 e del 2030. La preparazione di rapporti biennali sulla trasparenza è un processo esteso e complesso e i paesi in via di sviluppo con meno esperienza richiederanno supporto per il capacity building. Riconoscendo queste sfide, la presidenza azera ha lanciato la Baku Global Climate Transparency Platform per supportare le metodologie della rendicontazione e della trasparenza e ha ospitato diversi workshop regionali per supportare gli sforzi di rendicontazione.

TORNA SU

 

5 novembre 2024. Lo stato internazionale della green economy agli Stati generali di Ecomondo a Rimini

 

In Italia la green economy ha raggiunto risultati importanti in settori come l’economia circolare e il biologico e, addirittura, il Paese nel 2023 ha diminuito le emissioni di CO2 di oltre il 6%, tanto che se mantenesse questo trend potrebbe raggiungere il calo del 55% nel 2030. Ma accanto a questi primati in alcuni settori permangono criticità: non si arresta il consumo di suolo che interessa il 7,14% del territorio nazionale e si estende anche in aree di fragilità idraulica e sono aumentate nel 2023 le immatricolazioni delle auto, ma sono ancora poche le elettriche. Questa la fotografia dell’Italia delle green economy contenuta nella Relazione sullo Stato della Green Economy presentata in apertura degli Stati Generali della Green Economy 2024, la due giorni green a Rimini nell’ambito di Ecomondo, promossa dal Consiglio Nazionale della Green Economy.

Nel mondo la transizione verso un’economia più sostenibile che bilancia lo sviluppo economico con il mantenimento di ecosistemi globali sani richiede investimenti significativi, con stime variabili da 109 a 275 trilioni di dollari entro il 2050 solo per affrontare il cambiamento climatico. Questo flusso di investimenti va verso prodotti e servizi che aiutano a ridurre le emissioni e affrontare altri problemi ambientali globali, dalle energie rinnovabili all’acqua pulita, i trasporti green e la gestione dei rifiuti, da cui trae beneficio un’ampia gamma di aziende e catene del valore che compongono la green economy globale.

Le stime vengono dallo studio londinese di un team che sorveglia da tempo  i conti della green economy, un mercato che fornisce soluzioni climatiche e ambientali e si è ampliata considerevolmente nell'ultimo decennio. Nel 2023 ha marcato una forte ripresa dopo il calo del 2022, e con la sua capitalizzazione di mercato ha raggiunto i 7,2 trilioni di dollari nel primo trimestre 2024.  Tuttavia, permangono ostacoli, come i problemi di sovraccapacità e le relative barriere commerciali alla produzione di apparecchiature per energie rinnovabili e di veicoli elettrici (EV). A seguito del  ridimensionamento di alcune grandi aziende green statunitensi all'inizio di quest'anno, la quota del mercato green  è scesa leggermente dall’8,9 di fine 2023 all’8,6% nel primo trimestre 2024. Ma resta in espansione. La sua crescita a lungo termine supera con un CAGR a medio termine del 13,8% il più ampio mercato azionario quotato. Se considerata un settore a sé stante, la green economy avrebbe data la migliore performance negli ultimi 10 anni, superata solo dalla performance stellare del settore tecnologico (EOAS in Fig. I_1). L’efficienza energetica è stato di gran lunga il settore green con le migliori prestazioni, nonché il maggiore (46% della green economy e 30% dei proventi dei green bond. Le energie rinnovabili, hanno avuto nel 2023 una performance inferiore.

L’economia verde è diversificata e abbraccia settori e catene del valore globali. Quasi tutto le industrie generano ricavi da settori green. La tecnologia è di gran lunga il settore più grande della capitalizzazione di mercato (2,3 trilioni di dollari) e quello automobilistico ha il più alto tasso di penetrazione green (42%). Mentre più di 50 mercati sviluppati ed emergenti contribuiscono alla green economy, gli Stati Uniti nel 2024 saranno il mercato più grande per effetto delle dimensioni del mercato azionario statunitense e della presenza sul territorio di grandi aziende come Tesla, seguiti da Taiwan spinta dall’industria dei semiconduttori (75% del mercato su scala globale) e dalla Cina. 

Nell’asset class del reddito fisso, il mercato dei green bond ha sostenuto il carico di 540 miliardi di dollari emessi nel 2023 nonostante gli alti tassi di interesse. Sebbene i green bond siano annuali, le emissioni nel 2023 erano ancora inferiori al picco del 2021 e si erano riprese dalla livello più debole del 2022. I green bond di nuova emissione rappresentano ora circa il 6% del totale offerte di obbligazioni ogni anno. Tuttavia, i green bond in circolazione rappresentano solo il 2% del totale mercato obbligazionario (2,5 trilioni di dollari nel primo trimestre del 2024), laddove paradossalmente le emissioni di obbligazioni ad alta intensità di carbonio sono circa 2,5 volte superiori rispetto alle emissioni annuali di obbligazioni.  C'è del potenziale per un’ulteriore crescita dei mercati dei green bond se la transizione a basse emissioni di carbonio accelererà.

La crescita senza precedenti delle tecnologie digitali, in particolare dell’intelligenza artificiale (AI) e dei data center, potrebbero diventare un nuovo motore per l'ulteriore crescita e sviluppo della green economy. I giganti della tecnologia sono preoccupati per i loro sempre più pesanti consumi di energia e dela loro impronta ambientale e stanno diventando i maggiori acquirenti di energia rinnovabile. Microsoft ha recentemente stabilito il record per il più grande contratto di acquisto di energia elettrica pulita di una singola azienda, 10 miliardi di dollari per 10,5 GW di energia solare ed eolica.   Inoltre è necessario un ulteriore miglioramento dell’efficienza energetica, che è un’altra area di interesse green in crescita potenzialmente rapida, in settori quali chip e server, sistemi di raffreddamento, data center iperscala e gestione della domanda energetica. 

Leggi l'intero Rapporto

TORNA SU


 

12 aprile 2024. "Case green": un'occasione da non perdere

Nell'ambito del pacchetto Fit for 55, il 15 dicembre 2021 la Commissione ha adottato una proposta legislativa di revisione della direttiva EPBD (performance energetica degli edifici), molto in ritardo rispetto alle altre direttive del pacchetto su rinnovabili ed EE, cosa che ha avuto un impatto decisivo sull’accordo finale. L’accordo del Trilogo, che, come vedremo, ha radicalmente ridimensionato la proposta iniziale, è stato sottoscritto il 7 dicembre 2023 e il 12 marzo il PE ha adottato la sua posizione definitiva, con 370 voti favorevoli, 199 contrari e 46 astenuti.  

Ora manca ancora la posizione definitiva del Consiglio che dovrebbe essere votata il 12 aprile. In genere solo una formalità, il voto di accordo finale sul risultato del Trilogo, è diventato nel corso del 2023 un’occasione di ulteriore modifica e negoziato, grazie al (pessimo) precedente introdotto dalla Germania sulla normativa automotive e continuato in varie occasioni anche dall’Italia (ultimo esempio, imballaggi e Due diligence). Questo rende molto instabile l’accordo tra i co-legislatori, in precedenza considerato definitivo, ed apre a mercanteggiamenti dell’ultimo momento: quindi non sono da escludere sorprese; anche perché l’Italia ha già annunciato che voterà contro il 12 aprile e non siamo sicuri che la piccola maggioranza oggi esistente reggerà. Nel corso del 2023, la EPBD, normativa in principio piuttosto tecnica e mai al centro di polemiche in passato, è diventata insieme alle regole su automotive il simbolo del radicale cambio di atteggiamento del PPE e di parte dell’opinione pubblica rispetto al Green Deal. Importanti lobby come la Confedilizia europea e le loro associate in particolare in Germania e Italia, hanno iniziato una durissima campagna usando anche informazioni false e manipolazioni (da nuove tasse e numero abnorme di edifici sui quali intervenire a pericoli di perdere la casa) che hanno spaventato l’opinione pubblica e reso la discussione sui benefici molto difficile.

La proposta della commissione, il punto di partenza. Secondo la proposta della Commissione, tutti i nuovi edifici dell'UE sarebbero dovuti essere a emissioni zero a partire dal 2030, mentre tutti i nuovi edifici pubblici a emissioni zero a partire dal 2027. La Commissione aveva proposto di introdurre standard minimi di efficienza a livello europeo, innescando un aumento del tasso di ristrutturazione degli edifici con le peggiori prestazioni. Gli edifici non residenziali con un certificato di prestazione energetica (EPC) di classe G (la più bassa) avrebbero dovuto essere ristrutturati e migliorati per raggiungere almeno la classe EPC F entro il 2027 e la classe E entro il 2030. Gli edifici residenziali con le peggiori prestazioni dovevano raggiungere almeno la classe F entro il 2030 e la classe E entro il 2033. Per garantire standard nazionali comparabili, tutti gli EPC avrebbero dovuto essere basati su una scala armonizzata di prestazioni energetiche entro il 2025 e soggetti a un futuro ridimensionamento in vista del raggiungimento di un parco edifici a emissioni zero entro il 2050. L'EPC di classe G doveva coprire almeno il 15% degli edifici in ogni Stato membro, mentre la validità degli EPC delle classi inferiori (D-G) era ridotta da 10 a 5 anni.  Per aiutare i proprietari degli edifici a pianificare le ristrutturazioni, entro il 2024 dovevano essere introdotti dei passaporti di ristrutturazione volontari ed entro il 2026 uno Smart Readiness Indicator.

La posizione del Parlamento e del Consiglio. Al Parlamento europeo il dossier è stato assegnato alla commissione Energia Industria, che ha nominato Ciarán Cuffe (Greens/EFA, Irlanda) come relatore. La relazione finale che definisce la posizione negoziale è stata votata in sessione plenaria il 14 marzo 2023. In generale più ambiziosa sulle scadenze, il PE ha introdotto importanti esenzioni per edifici storici, di edilizia sociale e agricoli. Altro punto molto importante, le misure finanziarie dovrebbero dare la priorità alle ristrutturazioni profonde, soprattutto degli edifici con le peggiori prestazioni, e alle sovvenzioni e ai sussidi mirati messi a disposizione delle famiglie vulnerabili. Gli Stati membri avrebbero dovuto garantire che l'uso di combustibili fossili negli impianti di riscaldamento degli edifici di nuova costruzione o in quelli sottoposti a ristrutturazioni importanti dell'edificio o dell'impianto di riscaldamento non fosse autorizzato a partire dalla data di recepimento della presente direttiva. Avrebbero dovuto essere totalmente eliminati entro il 2035, a meno che la Commissione europea non ne avesse autorizzato l'uso fino al 2040. La posizione comune del Consiglio è stata adottata in ottobre 2022 (anche l’Italia l’ha adottata) e manteneva in gran parte la struttura della proposta della Commissione e in particolare classi energetiche e uscita dai sussidi dei combustibili fossili, pur dando più tempo e flessibilità. In seguito, la posizione è cambiata e la linea rossa è diventata evitare obblighi sui singoli edifici residenziali e dunque un approccio che offrisse un margine di manovra sufficiente per applicare dei requisiti di ristrutturazione al patrimonio edilizio in generale.

L’accordo del trilogo. L'accordo tra Parlamento e Consiglio è stato raggiunto, dopo dure discussioni e molta propaganda, il 7 dicembre 2023. L'accordo stabilisce che tutti i nuovi edifici dovranno essere a emissioni zero a partire dal 2030; i nuovi edifici occupati o di proprietà del settore pubblico dovranno essere a emissioni zero a partire dal 2028. Non esiste più l'obbligo di aumentare la prestazione energetica degli edifici attraverso livelli minimi che devono essere raggiunti dai singoli edifici, quindi niente EPC europei e riferimenti a classi energetiche.  Gli Stati membri dovranno invece garantire una riduzione dell'energia primaria media utilizzata negli edifici residenziali di almeno il 16% entro il 2030 e di un intervallo compreso tra il 20 e il 22% entro il 2035. Per quanto riguarda i requisiti minimi di prestazione energetica, l'accordo prevede che gli Stati membri ristrutturino il 16% degli edifici non residenziali con le peggiori prestazioni entro il 2030 e il 26% con le peggiori prestazioni entro il 2033. Rimane inoltre l’obiettivo di abbandonare completamente l'uso di caldaie a combustibili fossili entro il 2040 e di smettere di sovvenzionare caldaie autonome a combustibili fossili a partire dal 2025, ma sussidi potranno continuare per caldaie ibride: questo introduce un importante scappatoia per continuare a sovvenzionare l’uso del gas. L'accordo estende l'elenco delle esenzioni aggiungendo gli edifici di proprietà delle forze armate o del governo centrale e destinati alla difesa.

Nonostante il notevole indebolimento della norma e la competizione per le risorse che rende i sussidi nel settore delle costruzioni particolarmente controversi e complessi sono notevoli i vantaggi di una adeguata applicazione della direttiva. Il problema più serio sarà la volontà politica di disporre gli strumenti e i piani per applicarla al meglio.

Abbattimento delle emissioni e lotta alla povertà energetica: La Fillea-Cgil calcola che l’obiettivo dell’abbattimento del 55% delle emissioni del settore civile si potrà ottenere partendo dalla rigenerazione degli edifici di qualità energetica inferiore, impegnando il 15% delle abitazioni in classe F e G entro il 2030 e il 26% entro il 2033, mediante l’uso di materiali isolanti, di fonti di autoproduzione energetica, essenzialmente il fotovoltaico e di pompe di calore in luogo delle caldaie a combustibili fossili. Si tratta di mezzo milione di edifici pubblici e cinque milioni di abitazioni private che per lo più saranno le costruzioni di qualità inferiore delle periferie e delle semiperiferie.

Riduzione delle bollette: Il passaggio da classe F a D consente un risparmio medio annuo di 1200 € cui vanno necessariamente aggiunti i bonus e le agevolazioni fiscali per i soggetti che non potrebbero affrontare la spesa con le risorse proprie. Se si considera che in Italia la casa è il bene patrimoniale più importante e che i prezzi delle case sono alti, il vantaggio di mercato che si ottiene con la rigenerazione energetica è con ogni probabilità superiore alla spesa che alla fine di tutto resterebbe sulle spalle dei proprietari. L’intervento di incentivazione pubblica dovrà però tener conto delle disparità di reddito ed essere capace di dare copertura piena ai soggetti con redditi inadeguati. La Direttiva non impone alcun obbligo per i singoli immobili e quindi per i proprietari degli stessi. L’obbligatorietà sussiste invece per il Paese e quindi al Governo spetta di definire la strategia, gli investimenti e le politiche da attuare per raggiungere gli obiettivi in un paese dove la qualità del patrimonio edilizio è di per sé diversa e complessa e che lo stesso vale per i redditi delle famiglie. In questo senso vanno sollecitamente rivisti strumenti di pianificazione, come il PNIEC, ancora in fase di stesura definitiva e monitorare l’effettiva applicazione delle norme.

Rilancio comparto dell’edilizia: Se si considera a medio-lungo termine anche il comparto delle costruzioni nuove, la Direttiva appare una straordinaria occasione per ridefinire la politica industriale del settore, per rilanciare l’apparato produttivo, incrementare i posti di lavoro ed aumentare il gettito fiscale e lo stesso Pil. Oggi, infatti, il settore civile vale il 20% del Pil e oltre 2 milioni di posti di lavoro. Secondo l’ANCE un miliardo di euro di investimenti in edilizia genera un effetto diretto ed indiretto valutabile in termini di oltre 15.000 nuovi posti di lavoro. La Direttiva EPBD può dare al paese un’occasione di rilancio della professionalità della forza lavoro, per qualificare le imprese e per riportare, almeno in parte, le catene del valore entro i confini del nostro sistema economico. Questa volta abbiamo il tempo per evitare le bolle speculative, le malversazioni e i rincari ingiustificati delle materie prime e dei servizi. Una pianificazione ordinata e tempestiva delle misure di rigenerazione dovrà perfezionare il sistema delle autorizzazioni e rendere trasparenti e facilmente accessibili anche le procedure per l’accesso al credito, per la verifica della qualità dei manufatti e per il monitoraggio dei vantaggi energetici ed economici e delle compensazioni. Decisivo inserire il comparto civile in ristrutturazione nei programmi della transizione digitale.

Contributo alla transizione e riduzione dell’inquinamento: La Direttiva può inoltre essere messa al passo con le procedure costitutive delle Comunità energetiche rinnovabili e può quindi essere un’occasione unica di partecipazione democratica allo sviluppo sostenibile, alla lotta contro i cambiamenti climatici e alla protezione dell’ambiente e della salute, se si considera che l’attuale assetto energetico del settore civile, dominato dalla combustione dei fossili,  contribuisce in maniera sostanziale, al pari dei trasporti privati,  anche all’inquinamento dell’aria.  I gravi effetti di questo tipo di inquinamento sulla salute della popolazione, specialmente in aree svantaggiate come la pianura padana, non hanno ancora ricevuto un’attenzione adeguata da parte delle amministrazioni pubbliche e sono oggetto di procedure di infrazione che possono portare a multe salate. Nelle principali aree urbane il riscaldamento residenziale da solo, infatti, è responsabile del 64% della quantità di PM 2,5, del 53% di PM 10 e del 60% di monossido di carbonio. La Direttiva è pertanto un’imperdibile occasione di responsabilizzazione delle forze politiche e della società civile, la cui partecipazione proattiva non è solo necessaria ma è la chiave del possibile successo della transizione ecologica, qui e negli altri settori, con tutte le sue difficoltà.

TORNA SU

 

7 Novembre 2003. In una visione sistemica le transizioni sono due: quella ecologica è trasformativa e necessaria, quella climatica è una preoccupante distopia (di Toni Federico)

La visione sistemica della transizione è stata sviluppata per una iniziativa di formazione per addetti della PA con l'obiettivo di ristabilire alcuni paradigmi scientifici e mettere a fuoco le transizioni, quelle indotte nello stato dell'ecosistema globale dai fattori di pressione antropogenica generati dall'uso insostenibile dei combustibili fossili e quelle prefigurate come politiche di risposta con l'ambizione di modificare lo stato del sistema per riportarlo, a livello globale er locale, su un percorso di sostenibilità ambientale e sociale entro i limiti planetari di Raworth-Rockström.

La visione sistemica è la capacità teorica e pratica di osservare, pensare, modellare, simulare, analizzare, progettare e sintetizzare componenti, funzioni, connessioni, strutture, interrelazioni e dinamiche attraverso discipline, funzioni, organizzazioni, persone, tendenze e culture in modi che portano a interventi approfonditi sui problemi per ottenere soluzioni in linea con lo sviluppo sostenibile. La visione sistemica, della quale troviamo una anticipazione di grande spessore in Aristotele, è l'idea che tutti i fenomeni e le azioni dei sistemi sono composti da sottosistemi interrelati. Un tutto non è solo la somma delle parti, ma il sistema stesso può essere spiegato solo come una totalità. La visione sistemica è, quindi, l’opposto del riduzionismo cartesiano, il metodo scientifico sinora prevalente, che vede il totale come la somma delle sue parti individuali. Nella teoria tradizionale dell'organizzazione, così come in molte scienze, i sottosistemi sono stati studiati separatamente, con l'obiettivo di mettere insieme le parti in un tutto in un secondo momento. La visione sistemica sottolinea che ciò non è possibile e che il punto di partenza deve essere il sistema nella sua complessità. Un sistema è definibile in vari modi dal punto di vista formale, ma abbiamo un nucleo semantico unico e condiviso. Nella storia della scienza si sono succedute definizioni diverse, anche contrapposte, ma ogni sistema è un insieme di elementi che co-operano per raggiungere un obiettivo, non un insieme di elementi assemblati casualmente ma piuttosto di elementi funzionalmente associati ad una finalità: le parti interagiscono per raggiungere un obiettivo. Un sistema comprende input, processi e output. Quindi un sé ed un altro da se, spesso definito come ambiente. Delineare un sistema comporta il disegno del suo confine: il sistema è all'interno del confine; l'ambiente è fuori. In alcuni casi è abbastanza semplice definire cosa fa parte del sistema e cosa no; in altri casi, la persona che studia il sistema può definire arbitrariamente i confini. Noi lavoriamo con le rappresentazioni concettuali (modelli) e computazionali dei sistemi di cui ci serviamo per tentare di comprendere la realtà e talvolta per cercare di prevederne l’evoluzione futura, ma non sempre i concetti e le leggi fisiche spiegano la complessità dei fenomeni. Una intera classe di approcci sistemici allo studio dell’ambiente è stata aperta nel 1993 dall’OECD con il modello PSR, Pressure, State, Response. In questo caso si tratta di un modello concettuale il cui scopo è di spiegare, almeno in parte, le fenomenologie ecologiche complesse. Non è un modello matematico basato su variabili ed equazioni, come prescrive la Teoria generale dei sistemi; non è dinamico, non include cioà il tempo, né è adattativo. Le variabili di stato vengono sostituite dagli indicatori che non hanno con esse un rapporto formale. L’approccio ad indicatori ha avuto un successo universale e definitivo ed è andato a coprire interamente lo spazio del System thinking dedicato alla comunicazione. Sarà la base per tutte le politiche dello sviluppo sostenibile orientate agli obiettivi: sugli indicatori vengono costruiti i Millennium Development Goals, gli MDG del 2000, gli SDG dell’Agenda 2030 e lo stesso Accordo di Parigi. L’approccio sistemico formale resterà comunque protagonista della ricerca scientifica per la modellazione ecosistemica, come accade pere le attività coordinate dall’IPCC per il caso del clima.

Di transizione allo sviluppo sostenibile si parla già nell’Our Common Future della Brundtland (15 volte come transizione verso un SD e 10 volte come transizione energetica). Nell’Agenda 21 la parola appare rispettivamente 5 e 3 volte appena. Nell’Agenda 2030 solo una volta. Non è quindi un termine della cultura e della tradizione dello sviluppo sostenibile. Ci permettiamo di suggerire che lo sarebbe diventato con il Green Deal della Ursula Von der Leyen (52 citazioni, due per pagina), quando si fa chiarezza in Europa sul fatto che lo sviluppo sostenibile resterebbe un’utopia senza cambiamenti sostanziali dell’economia e della società. La metafora che rappresenta lo spirito di Rio, va detto, è quella della crescita. Nel ‘92 il muro di Berlino è stato abbattuto da tre anni e, ben al di là delle lezioni dei Meadows (Limits to growth del ‘72) e della Brundtland, fu facile accreditare l’utopia kennediana che ”A rising tide lifts all boats” grandi e piccole. Abbiamo invece visto crescere le diseguaglianze all’ombra della globalizzazione, imprevedibile a Rio, assai più che il welfare, e la natura degradare inesorabilmente. I PIL sono cresciuti ovunque, tranne che nei paesi ex URSS, ma questa contraddizione ha semplicemente spezzato il nesso tra crescita e sostenibilità, dato troppo per scontato. Da tempo si sta lavorando per “andare oltre il PIL” (E. Giovannini, J. Stiglitz, 2018) e in primavera il Parlamento Europeo ha patrocinato un convegno su questo fondamentale passaggio.

Il cambiamento climatico è ormai un incubo perché trascina l'ecosistema globale verso un tipo di transizione irreversibile che  può cambiare le condizioni di sopravvivenza della specie umana. Il clima è un sistema, tra i più complessi in natura, che governa le dinamiche della troposfera e il ciclo vitale dell’acqua, La troposfera è uno strato gassoso di una decine di km che avvolge la terra e consente le forme vitali che conosciamo, uomo compreso. Nella pratica si preferisce definire il clima come lo stato medio del meteo su lunghi periodi, area per area. Perché temere il cambiamento climatico? Del clima conosciamo i piccoli cambiamenti, aleatori e perfino erratici, ma la vita sul pianeta si è sviluppata ed adattata a regimi modesti di variazione delle dinamiche climatiche, atmosferiche e oceaniche. La stessa civiltà umana, le città, le campagne, l’agricoltura e le abitudini degli esseri viventi hanno avuto luogo entro quei margini di variabilità. Che succederebbe di fronte a rapide e violente alterazioni delle variabili di stato del clima, prima fra tutte le temperatura media superficiale della terra e dei mari, Tmst, determinata del bilancio tra energia solare ricevuta ed energia termica riemessa dalla terra?  Le due energie sono identiche in condizioni climatiche mediamente stabili. Senza l’effetto serra dei gas atmosferici Tmst  sarebbe di –18 °C, al di fuori dell’intervallo termico in cui l’acqua è liquida e la vita sarebbe impossibile nella forma attuale. A luglio 2023 siamo arrivati a + 17,2 °C, il record,  con una anomalia rispetto al periodo preidustriale di 1,54 °C. C’è ben poco di lineare in un sistema complesso come il clima, nel quale taluni effetti possono essere senza proporzione rispetto alle cause, per effetto della straordinaria sensibilità alle condizioni iniziali dei sistemi caotici (si ricordi il mito della farfalla di Lorentz). In certa misura può essere lineare il global warming, la Tmst, rispetto alla concentrazione dei gas serra. Rispetto agli andamenti paleoclimatici, la novità distopica è che le attività umane potrebbero avere il potenziale di spingere componenti del sistema Terra oltre gli stati critici, verso modalità operative qualitativamente diverse, cioè innescare transizioni climatiche irreversibili che implicano impatti su larga scala sui sistemi umani ed ecologici. A tali fenomeni è stato dato il nome di tipping points (tipping = ribaltamento), seguendo la nozione popolare secondo cui, in un particolare momento nel tempo, un piccolo cambiamento può avere grandi conseguenze a lungo termine. Nelle discussioni sul cambiamento globale, il termine tipping è stato utilizzato per descrivere una varietà di fenomeni nonlineari, tra cui la comparsa di un feedback positivo, transizioni di fase reversibili, elementi di svolta nel sistema climatico terrestre, transizioni di fase con effetti di isteresi e biforcazioni in cui la transizione è graduale ma il percorso futuro è imprevedibile. La definizione formale del tipping point per sottosistemi almeno a scala subcontinentale è il punto dello spazio delle fasi in cui, in determinate circostanze, avviene una transizione irreversibile in uno stato qualitativamente diverso. Per anni è andata avanti la disputa sull’origine del cambiamento climatico, se fosse la natura con la sua variabilità, il sole o i vulcani o non piuttosto  l’uomo con le sue pratiche industriali, come già era stato messo in chiaro per la distruzione dello stato protettivo dell’ozono (il famoso buco“). Contrariamente alle affermazioni dei negazionisti, la certezza definitiva dell’origine antropogenica del cambiamento climatico in atto è recente. Il board dell’IPPC lo ha stabilito soltanto nel  IV AR del 2007. In base ai dati le cause naturali a comportamento aleatorio non possono spiegare il cambiamento in atto. Quando si firmò la Convenzione contro i cambiamenti climatici a Rio nel 1992 e quando fu firmato lo storico Protocollo di Kyoto nel 1997, non ci si basava su questa certezza ma sul Principio di precauzione che in sostanza recita che: Anche senza certezze scientifiche non si può rinunciare ad agire contro i fattori sistemici (ambientali) avversi“. La transizione energetica è il nocciolo della transizione ecologica trasformativa, non la esaurisce ma, se non va a segno, la transizione ecologica fallirà. Non abbiamo target diretti per l’energia ma indiretti: la Tmst non deve superare, a meno di brevi e non auspicabili overshoot, gli 1,5 °C o, in extrema ratio, i 2 °C. Ciò comporta la decarbonizzazione compensata in tutto il mondo e in tutti i settori dell’economia entro il 2050 o poco oltre e quindi, possiamo dire, che da quella data i combustibili fossili dovranno rimanere sottoterra, fatta la dovuta eccezione per le materie plastiche, la farmaceutica etc. gestite in economia circolare. Si tratta di percentuali infime rispetto all’attuale insostenibile uso di carbone, petrolio e gas naturale nei settori energetico, trasportistico e civile. Le narrative, le opinioni e le politiche della decarbonizzazione sono oggigiorno numerose e diverse, secondo le condizioni specifiche dei vari paesi. Dovunque, però, la transizione energetica e la decarbonizzazione sembrano incardinate nelle politiche dei Governi. Attrae la prospettiva dell’autonomia energetica, da parte di paesi privi di risorse fossili, come quelli europei. Gli stessi paesi produttori, almeno quelli più vicini all’occidente, promuovono programmi di sviluppo delle fonti di energia rinnovabile e di decarbonizzazione. Si accresce il timore della scarsità delle materie prime e delle condizioni di vita dei lavoratori delle miniere. Si teme la formazione di monopoli nazionali, come sta accadendo da tempo per il petrolio ed il gas naturale. Spaventa la facilità con cui i mercati fanno i prezzi delle risorse, continuando a gonfiare profitti e privilegi. La sorte del clima dipende dall’energia e la condiziona. Non siamo ormai più sul percorso della decarbonizzazione al 2050. Per limitare il riscaldamento globale a 1,5 °C è necessario ridurre le emissioni di CO2 di 36 Gt entro il 2050 mediante una trasformazione su vasta scala del modo in cui le società consumano e producono energia. Gli impegni attuali, gli NDC, le strategie di sviluppo (LT-LEDS) e gli obiettivi net-zero segnano un deficit di 16 Gt nel 2050. Per rimanere sul percorso di 1,5 °C è necessario lo sviluppo annuale di circa 1.000 GW di energia rinnovabile a scala planetaria. Nel 2022, a livello globale, sono stati aggiunti circa 300 GW, pari all’83% della nuova capacità rispetto al 17% di fossili e nucleare. Sia il volume che la quota delle energie rinnovabili devono crescere sostanzialmente, il che è sia tecnicamente fattibile che economicamente sostenibile. Paradossalmente, nel 2022, si è registrato anche il più alto livello di sussidi ai combustibili fossili, poiché molti governi hanno cercato di attutire il colpo dei prezzi elevati dell’energia per consumatori e imprese. Nel 2022 gli investimenti globali in tutte le tecnologie di transizione energetica hanno raggiunto il livello record di 1,3 trilioni di dollari, ma gli investimenti di capitale nei combustibili fossili sono stati quasi il doppio di quelli investiti nelle energie rinnovabili. È necessaria un’accelerazione significativa in tutti i settori e le tecnologie energetiche, dall’elettrificazione più profonda degli usi finali dei trasporti e del calore, all’uso diretto delle fonti rinnovabili, del efficienza energetica e di tutti i potenziamenti infrastrutturali indispensabili. Di seguito i principali indicatori della transizione (IRENA).

Si possono consultare due presentazioni, quella dell'autore e quella di Andrea Barbabella, coordinatore scientifico di I4C, che espone il quadro del clima globale e quello del cambiamento climatico a livello italiano e l'orientamento del sistema industriale italiano. 

TORNA SU

 

1 settembre 2023: Energia e clima: considerazioni di medio termine nel time frame dell’Agenda 2030. Tre passi verso la transizione.  (di Toni Federico)

Restano sette anni al traguardo 2030 dell’Agenda 2030. Le prospettive di successo della lotta al cambiamento climatico sono strettamente legate alla trasformazione delle modalità di produzione e consumo dell’energia. Transizione ecologica e transizione energetica sono interdipendenti al punto che l’attenzione generale è oggi sull’energia che va verso una transizione basata sul concetto di lasciare i fossili sotto terra, come ha ricordato il Segretario generale dell’ONU Guterres. L’Accordo di Parigi del 2015 è parte integrante dell’Agenda 2030, licenziata in Assemblea Generale qualche settimana prima. Assumeremo che i target di Parigi siano quelli dello SDG 13, riconoscendo in questo modo all’anno 2023 non solo il ruolo di midterm dell’implementazione dell’Agenda 2030, ma anche quello del global stocktake, del bilancio generale dell’Accordo di Parigi, che, come fu allora stabilito è il primo dei compiti della COP 28 di Dubai di quest’anno.

Se di bilanci si tratta, e poiché dobbiamo rendicontare sullo stato di attuazione dell’Agenda 2030, cominciamo dal target dei target, che è l’importo delle emissioni serra nel periodo 2015 – 2022. A livello mondiale le emissioni serra salgono da 53,66 a 55,9 Gt al ritmo dello 0,6%/anno. Questa crescita porta l’anomalia termica rispetto ai livelli preindustriali a punte di oltre 1 °C. Il dato italiano si colloca in discesa nelle emissioni serra, tra 2015 e 2022, da 455,4 a 422,6 Mt al 2022 ad un ritmo annuo di circa 1% che ci porterebbe alla decarbonizzazione in circa 2 secoli. Siamo sotto del 20% rispetto al 1990, ma i progressi rallentano invece di aumentare.  L’Italia è nella zona calda del pianeta, la temperatura media al suolo si avvicina al doppio della media mondiale. Il 2022 è stato l’anno più caldo mai registrato dal 1800 ad oggi, con una variazione termica complessiva di +0.87°C rispetto alla media trentennale 1991-2020, circostanza che espone il paese ad eventi estremi, ondate di calore, incendi e inondazioni, in anticipo rispetto al resto del mondo.

Il bilancio del tema energia dello SDG 7 presenta luci ed ombre. Lo schema di analisi a livello globale è quello di Fig. 1 che riporteremo al periodo 2015 - 2022. Per il nostro paese non possiamo parlare in senso stretto di accesso negato all’energia, come accade a livello mondiale per le comunità che ne sono deprivate per una percentuale che nel 2021 a livello mondiale superava di poco il 10%. Dobbiamo invece parlare di povertà energetica (PE), nel senso indicato nella SEN 2017,  con riferimento a chi l’energia per riscaldarsi e mangiare non se la può permettere che, anche in Italia, è un fattore di povertà assolutamente grave. In Italia l’incidenza della PE. ha toccato l’8,5%, con un massimo del 16,7% in Calabria, in crescita di mezzo punto percentuale al 2022 in seguito all’aumento dei prezzi finali di elettricità e gas. Nel 2015 si misurava il 7,6%. Siamo dunque in regressione del 12% l’anno. I provvedimenti di contrasto, i bonus elettrico e gas, sono inutilmente aumentati di oltre 25 volte in poco meno di 3 anni (da 200 milioni a 5 miliardi) estendendosi a quasi un quinto delle famiglie italiane.

Il target sull’energia rinnovabile ci vede invece in vantaggio rispetto alla media mondiale, ma non di molto. SDG 7 non esplicita obiettivi quantitativi ma parla genericamente di crescita. Nel 2022 i consumi finali rinnovabili (FER) assommano con il metodo Eurostat a 23 Mtep, il 19,2% dei 120 Mtep totali. Benché l’obiettivo per il 2020 (17%), sia stato di fatto raggiunto già dal 2014, il modesto trend di crescita degli ultimi anni porta comunque a ritenere molto sfidante il target 2030. Con il 17,5% del 2015 la crescita annuale è infatti di appena il 1,4% che al 2030 ci porterebbe al 20,9%, meno della metà del target europeo del Fit for 55 del 42,5%. I consumi elettrici rinnovabili sono di 316,9 TWh (37%) nel 2022 contro il 33,5% del 2015, con una crescita midterm di 3,5 punti percentuali che ci porterebbe nel 2030 a poco più del 40%, ben al di sotto del raddoppio richiesto dall’Europa.

Il target dell’intensità energetica al 2030 dell’Agenda 2030 a livello mondiale è il raddoppio del tasso di miglioramento rispetto al 2015. La trascrizione a livello locale non è semplice, specie in Italia dove i consumi energetici primari sono sostanzialmente stabili e tutto si gioca sul PIL. Assumiamo i dati SDG 7 Eurostat e misuriamo il PIL in PPS. Al 2015 l’intensità primaria italiana è 4,096 MJ/€PPS, pari a 4,39 MJ/US$PPS, il 21,6% meglio del dato medio mondiale di Fig. 1. Assegniamo al trend italiano 2015 la media corrente tra 2015 e 2021 pari a -0,087 MJ/€PPT*anno. Al 2030 tale dinamica deve essere raddoppiata rispetto al 2015. Immaginando una progressione lineare fino al raddoppio del trend 2015, il target per l’Italia al 2030 è di 3,36 MJ/€PPS pari a 80 grammi equivalenti di petrolio per €PPS, laddove nel 2021 l’intensità energetica italiana è di 3,57 MJ/€PPS. L’algoritmo dell’Agenda 2030 si dimostra congruente con il target europeo, proprio perché nel 2015 il trend italiano dell’intensità energetica era buono. Supposto per EU 27 un incremento al 2030 del GDP fino a  22.230 GUS$ e l’Italia in media europea, l’impegno ultimativo dell’Europa che con il REPowerEU prescrive 980 Mtep di consumi di energia primaria al 2030, ci assegna a quella data un obiettivo di intensità energetica pari a  3,3 MJ/€.

Tutto questo è quanto proviene dalla dimensione prescrittiva dell’Agenda 2030 e dell’Accordo di Parigi che integra lo SDG 13.  I target dello SDG 13 sono di natura orientativa e rinviano alla Convenzione climatica dell’ONU. Sappiamo quindi che dobbiamo contenere l’anomalia termica tra gli 1,5 e i 2 °C e che si tratta di uno sforzo che ha prospettive di successo solo con uno sforzo mondiale unitario. Gli interessi, le esitazioni e gli scetticismi ci tengono lontani dal percorso del target, ma abbiamo alcune certezze. Intanto un impianto scientifico poderoso, inclusivo ed affidabile, a cura del IPCC, sostiene lo sforzo con attività di diffusione della migliore ricerca a livello mondiale. A fronte di talune posizioni nel nostro paese, che più che negazioniste sono scettiche ed inerti, riaffermiamo in tutte le sedi e con forza che i risultati scientifici sono il nostro punto di riferimento. Non è ideologia. Siamo i primi a sapere che la scienza fabbrica dubbi ed ipotesi molto più che certezze, ma proprio per questo i punti fermi del IPCC sono per noi riferimenti certi. Dobbiamo decarbonizzare l’economia entro metà secolo ed è per questo che stiamo intraprendendo le transizioni giuste, ecologica, energetica e digitale con tutti i correlati. Andiamo verso un’altra economia, non necessariamente rivoluzionata, che non userà più i combustibili fossili, che proteggerà e ricostruirà gli ecosistemi e la biodiversità, che utilizzerà i materiali e i manufatti in maniera circolare e che considererà le diseguaglianze e le discriminazioni sociali un fattore di arretratezza e di rallentamento dello sviluppo, piuttosto che una comoda prassi per accumulare ricchezza nelle mani di pochi. La battaglia climatica è la prima grande sfida che dirà se il sentiero della sostenibilità potrà essere intrapreso con successo. Senza stabilizzare il clima l’umanità non ha futuro, quindi le transizioni sono battaglie per la sopravvivenza, in cui l’intelligenza umana è perfettamente in grado di coniugare il cambiamento con il progresso che ha reso dominante la specie umana, aiutata da una conoscenza scientifica e da una strumentazione tecnologica che non hanno precedenti nella storia.

Non sappiamo in che misura la transizione ecologica avrà successo, ma i target posti a Parigi sul global warming dicono che il clima comunque cambierà e con esso anche la società e i comportamenti individuali dovranno adattarsi a nuove fenomenologie, ancor più gravi di quelle già gravi che ci hanno colpito nel 2023. L’adattamento è il primo target dello SDG 13, ma senza mitigazione non è una soluzione, come recita l’Accordo di Parigi. È costoso e irto di difficoltà, per il suo carattere di dipendenza dal territorio e dalla cultura e dalle capacità delle popolazioni.  A livello globale si sta cercando di dare all’adattamento un target globale unico, come l’anomali termica per la mitigazione a non più di 1,5°C. Potrebbe alla fine essere finanziario piuttosto che tecnico. Ma chi, come noi in Italia, sta già pagando per il cambiamento, non può certo aspettare quel target. Ci siamo dotati di un Piano per l’adattamento, il PNACC, timido, privo di risorse e di governance, pieno di cose da fare e vuoto di modalità per farle. Di esso abbiamo già detto e raccomandato come renderlo operativo. L’inazione ci sta costando cifre più alte della prevenzione e soprattutto grave è l’assenza di un messaggio chiaro e responsabile rivolto ai cittadini da parte del governo e delle amministrazioni locali, al di sopra della politica, che permetta loro di partecipare e mettere la loro conoscenza del territorio al servizio della comunità senza aspettare i volontari per spalare via il fango.

Le misure di contrasto ai cambiamenti climatici (tg. 13.2) vengono inserite nelle politiche, nelle strategie e nei piani nazionali, ancora in maniera troppo esitante e contraddittoria. A metà del cammino possiamo rivendicare la modifica che inserisce in Costituzione i diritti delle giovani generazioni e quindi lo sviluppo sostenibile; la trasformazione del CIPE in CIPESS e l’istituzione del Comitato Interministeriale per la Transizione Ecologica (CITE) che coordina le politiche di riduzione delle emissioni di gas climalteranti, entrambi presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Mettendo a confronto l’Italia con gli altri paesi europei, manca un ruolo attivo degli organismi scientifici che in maniera indipendente possano orientare le politiche dell’amministrazione. Anche con riferimento al target 13.3 possiamo testimoniare, in qualità di attori primari, della larga penetrazione dei concetti della sostenibilità nella società civile e nel mondo della scuola ed anche del progressivo e consapevole schieramento del mondo industriale in favore delle tematiche ambientali ed ESG e delle green e circular economies.

L’Italia non sta rispettando gli impegni per il Green Climate Fund, prescritti dal tg. 13a. Il Governo Draghi ha portato il contributo finanziario per il clima a 1,4 GUS$ all'anno per cinque anni a partire dal 2022. L'importo è notevolmente inferiore a quello che dovrebbe essere il giusto contributo del paese al fondo GCF di almeno 4 GUS$. Non possiamo invece rendicontare i tg. 7a,b e 13b per i quali non v’è documentazione ufficiale. Rispetto agli aiuti ai paesi in via di sviluppo il “Piano Mattei” dell’attuale governo punterebbe a trasformare l’Italia nella porta d’accesso europea del gas e dell’energia prodotta nella sponda Sud del Mediterraneo. L’idea di un tal Piano è stata lanciata in una chiave di reciproca convenienza e di aiuto allo sviluppo dei paesi poveri, ma non è ancora chiaro in cosa consisterà, dato anche il quadro politico incerto di molti dei Paesi nordafricani che ne dovrebbero essere i protagonisti.

Tre passi per una transizione giusta

Comunità degli sforzi. Il punto chiave non è tecnico né politico, ma piuttosto culturale. La transizione ha bisogno di visione, partecipazione e comunità di intenti, tutti fattori controversi nel corpo sociale italiano. È tradizione antica che l’Italia si presenti in tutte le scadenze ed i negoziati internazionali, Assemblee generali ONU, COP, G7, G20 etc. sempre in linea con le posizioni più avanzate e coraggiose, con l’Europa e con i paesi del Nord del mondo. Anche se la presenza italiana si è raramente segnalata per originalità e leadership, è certo che il mondo intero e tutti i paesi in via di sviluppo ci vedono come un paese responsabile e d’avanguardia. Nella stessa Agenda 2030 i target 13. 1 e 2 si tengono vicendevolmente, sostanzialmente prescrivendo che per integrare nelle politiche, nelle strategie e nei piani nazionali le misure di contrasto ai cambiamenti climatici occorre migliorare l'istruzione, la sensibilizzazione e la capacità umana e istituzionale riguardo ai cambiamenti climatici. Ciò comporta una visione comune che non è un’ideologia né tantomeno una religione, ma un patrimonio anche minimo di convinzioni condivise e scientificamente fondate che dica, ad esempio, che il cambiamento climatico è in atto, che è antropogenico e che deve essere fermato. Al contrario media e leader politici sembrano in favore di contrapposizioni artificiose che fanno audience e portano voti, con poco rispetto per quello che per la scienza è ormai certo. Anche i giovani di Greta e di ultima generazione, che chiedono solo di essere ascoltati, vengono discriminati e derisi. La qualità dei meccanismi istituzionali di consultazione dei giovani, quali che siano le tematiche in gioco, è un indice della forza di ogni democrazia. L’Europa affronta nei suoi documenti più recenti la complessità del problema chiamando in causa le diseguaglianze che la causa profonda della minore fiducia nelle istituzioni nazionali e dell'EU, nonché nella democrazia liberale in generale. La messa in discussione dei diritti civili, il crescente malcontento e la mancanza di un'agenda positiva causano l’erosione della fiducia nelle istituzioni pubbliche, la polarizzazione e la fioritura di movimenti estremisti, autocratici o populisti. A livello globale, il livello di democrazia di cui gode il cittadino medio è sceso ai livelli di trent’anni addietro. La democrazia è sempre più messa alla prova come modello di governance più adatto ad affrontare le crescenti questioni socio-economiche ed ambientali.

In Europa alcuni dei requisiti fondamentali per una democrazia funzionante sono compromessi, come mostrano le sfide allo stato di diritto e una crescente cittadinanza silenziosa che non va a votare, non partecipa e non si assume responsabilità. Anche la personalizzazione della politica è in aumento, con i leader politici considerati più importanti dei partiti. La polarizzazione del dibattito politico e il senso di isolamento sono amplificati dalla disinformazione, dai social media e dai pregiudizi algoritmici di sapore millenaristico. Inoltre, le comunità che si sentono abbandonate alimentano il disimpegno e il malcontento. Il fallimento nell'affrontare la salute delle democrazie europee potrebbe mettere a dura prova sia il lancio di politiche sostenibili che la stessa transizione. Il ruolo dell’ASviS nei prossimi sette decisivi anni ne risulta amplificato proprio perché, in controtendenza, nei primi otto ha allargato a dismisura il perimetro della discussione partecipata sulla sostenibilità e sul clima, tanto nella società civile quanto nelle istituzioni.

Dotare l’Italia di una Legge per il clima. Il secondo passo è una seria mobilitazione per il phase out dei combustibili fossili dalla nostra economia. La decarbonizzazione, come ci viene ripetuto ad ogni piè sospinto, sarebbe inutile senza i giganti, Cina, India, USA. L’Italia emette il 2% e l’EU circa il 10%. Ma l’Italia è un paese guida, un G7 e un G20, e con l’Europa ha una sola carta in mano che è accelerare la decarbonizzazione e sviluppare un’economia rinnovabile, circolare ed inclusiva, in modo da conquistare un’autonomia energetica e tecnologica per ora lontana e trainare i mercati da protagonista, come Cina ed USA stanno cercando di fare per conto loro. La competitività europea può unicamente essere basata sull’innovazione poiché, in alternativa, diventeremmo irrilevanti all’ombra delle nostre piccole percentuali. Ad essa va aggiunto il rilancio delle politiche di aiuto allo sviluppo dei paesi arretrati. È quanto EU sta cercando di fare con il Green Deal e i suoi sviluppi, non senza successo. Anche le aree di opposizione al Green Deal confusamente percepiscono che la transizione è la via anche per rendere sostenibile il problema delle migrazioni, senza porsi alla coda di un fenomeno mondiale immaginando impossibili approcci repressivi o umilianti compra-vendite. Si agita lo spauracchio dei tempi stretti della transizione, ma in realtà si tratta di più di un quarto di secolo. Gli obiettivi al 2030 sono sfidanti, ma compatibili con il sistema industriale e, se accompagnati da politiche sociali avvedute, si possono raggiungere senza toccare né il lavoro né il welfare né le convenienze degli investitori. La nostra cura è aprire le strade, muovere i fattori abilitanti, acquisire il consenso. I Piani per la mitigazione e l’adattamento, PNIEC e PNACC, sono sul tavolo, ma devono essere trasferiti in una Legge per il clima votata in Parlamento. Solo così le occasioni diventano scadenze, a cominciare dai phase out dei sussidi ambientalmente e climaticamente dannosi. Con la dovuta gradualità si può cominciare a modificare il regime delle agevolazioni in modo da svelare gli alti costi dell’economia fossile e, dopo qualche attrito di primo distacco, aprire la strada alle convenienze universali dell’economia rinnovabile e circolare. L’impresa titanica è smobilitare il sistema gas, dominante in Italia. Non abbiamo petrolio né carbone né fracking e il gas lo paghiamo a cifre esose anche se viene da paesi amici. Sembrerebbe quindi facile capire che ogni tep consumato in rinnovabili è un tep in meno di gas naturale e che, in lunga prospettiva, del metano si può fare a meno. Allora perché l’idea velleitaria di fare dell’Italia lo snodo, il supermercato, ovvero l’hub del gas? È vero, l’Africa è vicina, ma può dare in solare e in idrogeno verde molto di più che in gas e guadagnare in sviluppo molto di più che dando contratti alle multinazionali del fossile, come insegna il caso della Nigeria. Perché allora non un hub dell’idrogeno green fatto con il solare dove è in eccesso permanente? Potremmo cominciare proprio dalla Sardegna facendone un caso esempio, invece di finanziare la costruzione dell’ennesimo tubo destinato a non trasportare niente. Intanto siamo fuori dal primo grande progetto della pipeline europea per l’idrogeno che è ispano-franco-tedesco, al di là delle polemiche sull’idrogeno nucleare francese. Perché poi alimentare una polemica quotidiana contro la mobilità elettrica, finora millesimale, quando Stellantis, quel che resta dell’automotive italiana, sta mettendo sul mercato due modelli economici per le famiglie e dichiara un possibile rinuncia ai motori a combustione interna nel 2030, cinque anni prima della scadenza europea? Perché dire che il tutto elettrico della fine di questo secolo metterà in crisi la rete elettrica di trasmissione e di distribuzione, pensando a quella di oggi? La rete elettrica smart dei prossimi anni, supportata dalle tecnologie digitali e dall’intelligenza artificiale, è lontana parente di quella di oggi, è un web basato sulle fonti rinnovabili, sull’autoconsumo, sullo stoccaggio dell’energia e sull’efficienza dei consumi sia in quantità che in modalità d’uso programmate. Una legge per il clima dotata di milestone, di risorse e di ruoli metterebbe fine in fretta a queste inutili polemiche.

Portare al massimo la produzione elettrica rinnovabile. Il terzo passo è l’apertura ad uno sviluppo delle fonti rinnovabili di energia e all’economia circolare della materia all’altezza degli impegni presi. L’Italia si è portata all’avanguardia nel riciclo circolare dei rifiuti, 55 contro il 48% della media europea, anche grazie alle politiche illuminate di inizio secolo. Sono stati i primi passi dell’economia circolare. Nel 2021, in Italia è stato riciclato il 73% degli imballaggi raccolti. superando l’obiettivo EU del 65% entro il 2025. L’Europa ricicla meno e vorrebbe più riuso. Ovviamente riuso e riciclo non sono in competizione ma sono complementari, tanto che per la costruzione di impianti di riciclo e raccolta differenziata, il PNRR italiano stanzia circa 2,1 miliardi di euro. La Commissione spinge per il riuso all’insegna delle filiere corte di Farm to Fork, con l’obiettivo di ridurre i rifiuti da packaging del 15% entro il 2040 in ciascun paese. Secondo la Commissione smaltire beni potenzialmente riutilizzabili produrrebbe ogni anno 35 Mt di rifiuti e perdite per oltre 12 M€. D’altra parte, grazie alla trasformazione dei rifiuti, nel 2021 l’Italia ha recuperato 285 mt di acciaio, pari a 739 treni Frecciarossa, 16 mt di alluminio che equivalgono a 1,5 miliardi di lattine e 1,8 t di vetro, pari a 5 miliardi di bottiglie di vino. Resta da fare il conto dell’impronta carbonica dei due approcci.

Purtroppo stiamo assistendo in Italia al declino delle fonti rinnovabili di energia elettrica come mostrato in Fig. 4. Partiti nel secondo decennio con sussidi incentivanti sovradimensionati che hanno portato capitali in Italia e profitti all’estero, abbiamo potuto raggiungere nel 2011 un installato annuo di circa 11 GW. Da allora stiamo mestamente declinando verso lo zero con un modesto segno di ripresa solo nel 2022, sette anni sprecati. Disincentivazione intempestiva, burocrazia, pregiudizi, fake news e disinformazione possono essere tutti fattori riconoscibili di questo disastro ma ci sono forze organizzate con le quali fare i conti. Ci sono alternative allo sviluppo delle fonti rinnovabili? I consumi elettrici aumenteranno comunque percentualmente con l’avanzare del contrasto ai cambiamenti climatici, perché i rendimenti elettrici sono inarrivabili e perché si può fare elettricità senza CO2. Un progetto per il futuro deve essere esplicitamente dichiarato. Se deve essere gas naturale sappiamo che gli obiettivi di Parigi e dell’Europa saranno perduti per l’Italia. Inoltre il gas costa ed è difficile trovarlo sul mercato a causa della competizione crescente dei paesi emergenti. Il sistema industriale italiano si dichiara pronto ad andare oltre il raddoppio delle FER elettriche entro il 2030, installando 8-10 GW di nuova potenza ogni anno e tutto lo stoccaggio necessario. Con l’aiuto del PNRR si sta dando mano al reshoring delle catene del valore, pannelli, batterie e idrogeno. La strada è aperta: il percorso dell’elettrificazione rinnovabile da qui al 2050 è possibile, sostenibile e sicuro. La progressione può essere gestita anche nella chiave sociale dell’autoconsumo, del welfare e dell’occupazione, con criteri di equità e giustizia, confortati da esperienze che ormai dimostrano che i posti di lavoro aumenterebbero di numero e di qualità e che le riconversioni si possono guidare rispettando i diritti dei lavoratori ed anche le convenienze del sistema industriale e commerciale. Le comunità energetiche rinnovabili, sviluppate in chiave solidaristica, sono una chance democratica e partecipata, anche per lottare contro la povertà energetica.

Energia dalla materia si può ricavare, poco dalla fissione dei macroelementi, essenzialmente uranio e torio che nemmeno abbiamo in Italia, molto di più, in prospettiva, dalla fusione dell’idrogeno con la tecnologia europea Tokamak piuttosto che con i laser nordamericani. La fissione si è logorata in decenni costellati da gravi incidenti e da rischi ancora peggiori, senza un minimo progresso rispetto alle basi fisiche e alle tecnologie postbelliche. La fusione non ha i tempi della decarbonizzazione al 2050. Gli investitori sono del tutto restii su entrambi i fronti.

Concludiamo sottolineando che i tre passi per la transizione, che sono la sintesi della proposta midterm per il clima e l’energia dell’Agenda 2030 per l’Italia, sono fortemente interdipendenti e si richiamano l’un l’altro. Consapevolezza, visione e senso comunitario si accompagnano strettamente al riconoscimento del dato scientifico della natura antropogenica del cambiamento climatico e della potenziale irreversibilità sistemica dei suoi impatti. La transizione energetica è condizione per entrambi i passi poiché ancor oggi dagli usi dell’energia deriva l’80% circa dei gas che alterano il clima e riscaldano la terra e perché nel percorso da qui al 2050 non ci sono alternative ecologicamente ed economicamente credibili alle fonti di energia rinnovabile. > leggi l'intero documento

TORNA SU

 

Giugno 2023: La retorica dello sviluppo sostenibile: il greenwashing

 Contributi di Simona Fabiani (CGIL), Toni Federico (ed.; Fondazione per lo sviluppo sostenibile), Grazia Francescato (Verdi Europei), Domenico Gaudioso (GHGMI Italia), Mariagrazia Midulla (WWF), Flavio Natale (ASviS)

 

Il Segretario generale delle Nazioni Unite ha incaricato il gruppo di esperti ad alto livello sugli impegni net zero dei soggetti privati e delle amministrazioni di affrontare le promesse e gli impegni da parte di attori non statali, tra cui società, istituzioni finanziarie e amministrazioni locali e regionali. Nell'intraprendere il proprio lavoro, e per formulare le proprie conclusioni e raccomandazioni, il gruppo di esperti si è basato sulla credibilità dei soggetti e sui quadri di definizione degli standard per gli impegni net zero.

Il gruppo di esperti riconosce che le capacità e le esigenze differiscono ampiamente all'interno e tra gli attori non statali. Sebbene l'attenzione delle raccomandazioni si sia concentrata sui criteri e gli standard che si applicano alle grandi società, agli istituti finanziari, alle città e alle regioni, il gruppo di esperti riconosce che anche gli attori non statali più piccoli svolgono un ruolo importante e avranno bisogno di sostegno e assistenza per accrescere le proprie capacità. In sette mesi, i membri del gruppo hanno tenuto oltre 40 consultazioni regionali e tematiche, coinvolgendo oltre 500 organizzazioni in tutto il mondo. Il gruppo ha inoltre ricevuto quasi 300 contributi scritti da organizzazioni, iniziative e individui interessati.

I cinque principi suggeriti dagli esperti delle Nazioni Unite sono in sintesi:

1.      Ambizione che consenta di ottenere significative riduzioni delle emissioni a breve e medio termine, in un percorso che porti a emissioni zero di anidride carbonica a livello globale entro il 2050 e a emissioni zero di gas serra subito dopo.

2.      Dimostrare integrità allineando le azioni e gli investimenti agli impegni dichiarati.

3.      Trasparenza radicale nella condivisione di dati rilevanti resi comparabili su piani e progressi.

4.      Credibilità consolidata grazie a piani basati sulla scienza e sulla responsabilità delle terze parti.

5.      Impegno dimostrabile per l'equità e la giustizia in tutte le azioni.

Il percorso suggerito dagli esperti delle Nazioni Unite a tutti gli operatori non statali si può rendere sotto forma di un decalogo di raccomandazioni:

1.      Annunciare un impegno net zero

2.      Stabilire obiettivi net zero

3.      Utilizzare i permessi di emissione del mercato volontario rispettando i nuovi standard internazionali senza recare danni alle popolazioni indigene

4.      Creare un piano di transizione

5.      Eliminare gradualmente i combustibili fossili e aumentare in proporzione le energie rinnovabili

6.      Allineare le attività di lobbying e di advocacy

7.      Dare alle persone e alla natura il ruolo di protagonisti di una transizione giusta

8.      Aumentare la trasparenza e la responsabilità

9.      Investire nella transizione giusta

10. Accelerare il percorso verso una regolamentazione internazionale di tutta la materia.

> Leggi l'intero studio

TORNA SU

 

Giugno 2023: Il nuovo Piano nazionale energia e clima: dieci raccomandazioni per l'abbandono dei combustibili fossili

 La crisi energetica e quella climatica sono fortemente interdipendenti e richiedono decisioni complesse, da adottare in stretto raccordo tra di loro per conseguire gli obiettivi europei fissati per il 2030 e il 2050. Si tratta di decisioni che investono politiche economiche e fiscali, politiche industriali e della ricerca, politiche sociali, con evidenti riflessi sul funzionamento del sistema economico e della nostra società. Di fronte alla crisi climatica l’Italia presenta numerose fragilità e rischi. Infatti, il nostro Paese si riscalda più rapidamente della media dei Paesi europei e della media globale. Siamo già oltre i 2°C di anomalia termica rispetto al periodo preindustriale e il numero degli eventi climatici estremi ha avuto un picco nel 2022. D’altra parte, i consumi di energia e le emissioni di gas climalteranti per unità di Pil sono più limitate di quelle di altri Paesi europei, anche per il clima temperato del territorio italiano rispetto al Nord Europa, e la media efficienza della nostra industria manifatturiera. Tra il 2014 e il 2022 l’Italia ha ridotto di poco le proprie emissioni, da 435 a 414 milioni di tonnellate di anidride carbonica equivalente (MtCO2eq). Si tratta di una riduzione di appena 21 milioni (-4,8%) in nove anni. Con questo ritmo rischiamo di arrivare alla neutralità climatica fra un secolo, non entro il 2050 come concordato nell’Unione europea. Inoltre, con questo ritmo l’obiettivo europeo per il taglio delle emissioni del 55% entro il 2030 appare del tutto irraggiungibile, anche tenendo conto dei sistemi di compensazione delle emissioni (Emission Trading System, ETS). Il nuovo Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC), il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC) e una Legge sul clima per l’Italia dovrebbero indicare come procedere lungo la via della decarbonizzazione, allocando risorse e definendo regole. Il tutto, in coerenza con la nuova Strategia Nazionale di Sviluppo Sostenibile. Entro giugno 2023 anche l’Italia, come gli altri Stati membri dell’Unione europea (UE), dovrà presentare alla Commissione europea la proposta di revisione del proprio PNIEC secondo quanto previsto dall’articolo 14 del Regolamento UE sulla governance dell’Unione dell’energia e dell’azione per il clima del 2018. Il Piano dovrà essere approvato in via definitiva entro un anno e avrà durata decennale. Ai primi di maggio il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) ha aperto la consultazione sulla bozza del nuovo PNIEC, senza rendere disponibile un testo, ma cercando soltanto di sondare statisticamente le opinioni dei diversi stakeholder. La consultazione è avvenuta attraverso un questionario che “rappresenta la fase iniziale di un processo di informazione e condivisione a vari livelli con cittadini, industrie, operatori del settore, regioni, comuni, parlamento, che durerà fino a giugno 2024, data di presentazione alla Commissione UE della versione definitiva del PNIEC, e che comprenderà anche strumenti di consultazione sul testo più strutturati, come la VAS, e canali istituzionali come la Conferenza Unificata”. La consultazione ha avuto termine il 26 maggio. I punti di riferimento ineludibili per la predisposizione del nuovo PNIEC, nel quadro dell’Agenda 2030 dell’Onu e dell’Accordo di Parigi, sono gli impegni previsti dall’UE con il Green deal e il Pacchetto di Proposte “Pronti per il 55%” (Fit-for-55), mentre il Rapporto AR6 dell’Intergovernmental Panel on Clmate Change (IPCC) fornisce il quadro informativo che spiega perché questi impegni non sono dilazionabili. Nel nostro Paese i percorsi strategici della transizione energetica sono ormai avviati e incorporati anche nelle scelte del sistema produttivo orientate a processi di riconversione green, accelerati a seguito della crisi indotta dalla guerra in Ucraina, che implicano investimenti ingenti da parte delle imprese. Proprio per questo, è indispensabile e urgente definire gli scenari delle politiche pubbliche, in coerenza con gli obiettivi concordati, mentre optare per scelte politiche divergenti rispetto al percorso finora indicato rischia di vanificare gli sforzi fatti e di far perdere al Paese competitività e crescita. Al contrario, l’impegno verso la transizione energetica ed ecologica dell’Italia va accelerato e rafforzato con programmi e misure di supporto più efficienti e capaci anche di proteggere al massimo le persone e le imprese chiamate a cambiamenti significativi, accompagnandole con programmi di riconversione e formazione in grado di ridurre i costi della transizione.

 

 

Dieci raccomandazioni per un Piano energia e clima capace di cogliere gli obiettivi europei

  1. Per essere efficace il Piano deve essere definito e reso operativo nei tempi stabiliti a livello europeo.

  2. Il Piano deve affrontare in modo chiaro tutte le problematiche della transizione ecologica “giusta”.

  3. Energia rinnovabile: da qui al 2030 installare non meno di 10 GW di elettrico all’anno e puntare sulle comunità energetiche.

  4. Rinnovabili e paesaggio: trovare un punto d’incontro è possibile e necessario.

  5. Promuovere l’efficienza energetica e le azioni individuali per consolidare le pratiche di risparmio energetico.

  6. Promuovere la riduzione del traffico, il trasporto pubblico, la mobilità elettrica con una progressiva eliminazione dei motori a combustione interna.

  7. Introdurre nel PNIEC il raggiungimento del target europeo di riduzione delle emissioni serra di almeno il 55% entro il 2030.

  8. Investire su innovazione tecnologica, idrogeno, smart grid e cattura del carbonio.

  9. Chiarire le forme di finanziamento della transizione energetica e sciogliere il rebus degli incentivi.

  10. Garantire la partecipazione della società civile al processo decisionale, promuovere la trasparenza e il ruolo delle giovani generazioni.

>Leggi l'intero documento

TORNA SU

 

Marzo 2023: Il nuovo Piano nazionale per l'adattamento ai cambiamenti climatici. Dieci proposte per evitare ciò a cui non possiamo adattarci e adattarci a ciò che non possiamo evitare

Il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC), licenziato dal Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) a seguito della sollecitazione della Presidente del Consiglio dopo i gravissimi fatti di Ischia. In realtà, una bozza di Piano e una Strategia per l’adattamento erano stati elaborati dal Ministero da anni con gli apporti scientifici di ISPRA e del CMCC, ma il precedente Ministro della Transizione ecologica (MITE) non aveva ritenuto di perfezionarlo, così come è accaduto per il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC), che riguarda gli indirizzi politici e operativi per la mitigazione climatica e la transizione energetica. Il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC), pubblicato sul sito del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica alla fine del 2022, è il risultato del percorso avviato dal MATTM nel 2017, così come previsto dalla Strategia Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti climatici (SNACC). Nel 2018, a seguito della condivisione con la Conferenza Stato-Regioni della bozza di Piano, il Ministero ha ritenuto di sottoporre il documento al procedimento di Valutazione Ambientale Strategica (VAS).

Si è dunque proceduto alla verifica di assoggettabilità (2020) e alla fase di scoping (2021), che si è conclusa con la comunicazione dell’Autorità competente (giugno 2021) che ha trasmesso il parere della Commissione Tecnica di Verifica dell’Impatto Ambientale – VIA e VAS (n. 13 del maggio 2021). Sulla base delle numerose osservazioni pervenute si è reso quindi necessario apportare sostanziali modifiche alla versione del PNACC del 2018 a seguito delle quali è stata prodotta la versione pubblicata nel dicembre 2022. La qualità scientifica del lungo lavoro di preparazione consente di condividere le impostazioni di principio, le analisi e le valutazioni che confermano la necessità di adottare con estrema urgenza misure adeguate di prevenzione e di risposta agli effetti dei cambiamenti climatici in atto e, prevedibilmente, agli effetti che attendono i nostri territori nel futuro. In particolare, i quattro allegati al Piano, recanti le indicazioni metodologiche per l’elaborazione di strategie e piani nella dimensione regionale e locale, forniscono utili elementi di quadro e strumenti specifici, i quali mantengono la loro attualità, sebbene elaborati nel 2020 e quindi impossibilitati a tener conto delle più recenti pubblicazioni scientifiche a partire dal Sesto Assessment Report dell’IPCC (2021-2022), nonché degli avanzamenti sulle conoscenze da parte della comunità scientifica, delle linee di azione dettate dalle decisioni dell’UNFCCC e degli altri strumenti globali di governance ambientale. Tali indicazioni consentirebbero di indirizzare meglio e avviare la progettazione di azioni operative a carattere locale, anche in assenza di un quadro nazionale definitivo e vincolante, come suggerito anche dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) nel Rapporto 2022 (WG II, SPM). Oltre a individuare alcune azioni finalizzate al rafforzamento della governance (tra cui la costituzione di un Osservatorio dedicato) e delle competenze tecniche per l’adattamento a livello nazionale (azioni cosiddette soft), il PNACC propone un database di azioni di adattamento, così come già individuate e definite nell’ambito della versione del Piano del 2018, così suddivise: I. 274 azioni soft (76% del totale), II. 46 azioni green (13% del totale), III. 41 azioni grey (11% del totale). Tali azioni costituiranno il contesto di riferimento per gli interventi che verranno presentati dalle Regioni, dagli Enti Locali e da altri Enti pubblici. Trattandosi di un database realizzato nel 2018, ovvero prima che si delineasse il più recente quadro normativo europeo di interesse per la tematica dell’adattamento (Il Green Deal europeo nel 2019, la nuova Strategia dell’UE di adattamento ai cambiamenti climatici nel 2021, la Legge europea sul clima nel 2021), l’auspicio è che l’Osservatorio provveda a un aggiornamento delle azioni in esso contenute, anche al fine di riequilibrare la componente territoriale degli interventi (azioni green e grey rispetto a quelle soft) e rafforzare la componente green delle azioni, in linea con gli indirizzi europei, anteponendole con assoluta priorità a quelle grey laddove possibile.

 

Dieci raccomandazioni per l'adattamento

  1. Assicurare la coerenza generale di tutte le politiche sul clima, sulla biodiversità e sulle transizioni ecologica e digitale, nonché delle politiche sociali, mediante l’adozione, a tutti i livelli, della necessaria visione sistemica, così come garantisce il mainstreaming dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e dei 17 SDGs in essa contenuti.

  2. Dare rapida attuazione alla revisione del PNIEC e, in sinergia con il PNACC, procedere all’approvazione di una Legge italiana sul clima. L’ambizione in materia di adattamento ai cambiamenti climatici deve andare di pari passo con la leadership europea nella mitigazione dei cambiamenti climatici.

  3. Completare, con un’urgenza rapportata alla gravità della situazione, le analisi di rischio e di vulnerabilità su tutto il territorio nazionale alle diverse scale, perfezionando il lavoro avviato dal Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC) con nuovi dati e nuove tecnologie.

  4. Rendere operativo il PNACC nei tempi urgenti della crisi climatica che i territori già sperimentano, evitando rinvii a processi attuativi complessi e lunghi, che svuoterebbero il Piano della necessaria operatività.

  5. Concordare tra Governo e Parlamento una gerarchia delle priorità delle misure di adattamento e degli interventi da attuare in funzione delle specificità dei territori e delle risorse disponibili. Incentivare la contribuzione alle azioni di adattamento dei diversi settori economici e dei capitali privati.

  6. Dare inizio subito all’attuazione delle misure a più alta priorità, con particolare attenzione alle misure di delocalizzazione di insediamenti civili e industriali. Privilegiare le soluzioni nature based in tutto il quadro delle misure, in particolare nella rigenerazione delle aree urbane, lungo le coste e lungo i percorsi dei fiumi e dei torrenti, in collaborazione con le Autorità di bacino.

  7. Definire le regole, i ruoli e soprattutto le responsabilità della governance del Piano, precisando compiti, responsabilità e finanziamento delle amministrazioni regionali e locali.

  8. Utilizzare il settore assicurativo per l’implementazione di politiche di trasferimento del rischio e per la condivisione delle perdite finanziare collegate ai danni climatici, passando da politiche occasionali di risposta a singoli episodi di danni climatici all’anticipazione e alla gestione del rischio.

  9. Correggere e ridurre sostanzialmente le diseguaglianze che, anche a livello sociale, sono dovute alle caratteristiche diverse del clima e dei territori in Italia e alla diversa preparedness delle amministrazioni locali, anche mediante il ricorso ai poteri sostitutivi.

  10. Regolare la partecipazione della società civile e delle parti sociali, escluse dall’Osservatorio, e del pubblico, anche adottando i principi e le pratiche del débat public, sull’esempio di quanto fatto per le grandi opere previste dal PNRR. Istituire percorsi di formazione di quadri e di tecnici, anzitutto della pubblica amministrazione, per la lotta ai cambiamenti climatici e per l’adattamento, investendo nell’istruzione pubblica media superiore e universitaria.

             >Leggi l'intero documento

TORNA SU

 

30 Novembre 2022. Il Club di Roma pubblica il Rapporto 2022: "Earth for All. A Survival Guide for Humanity"  a cura di Gianfranco Bologna (leggi l'originale)

50 anni dopo la pubblicazione del suo primo rapporto “The Limits to Growth” che scatenò il dibattito planetario sull’impossibilità di una crescita materiale, quantitativa e illimitata dell’umanità in una Terra dai chiari limiti biogeofisici, e dopo la pubblicazione di altri 52 rapporti, l’ultimo rapporto “Earth for All. A Survival Guide for Humanity”, pubblicato nel settembre di quest’anno dal Club di Roma e, in edizione italiana, a fine novembre, rappresenta un documento veramente importante e straordinario, perché in maniera chiara e documentata, illustra in cosa consiste concretamente un vero cambiamento di sistema per l’intera umanità. Un cambiamento ineludibile perché ci troviamo nel bel mezzo di un’emergenza a scala planetaria che noi stessi abbiamo creato. Conosciamo i punti deboli. Tutti sanno che dobbiamo porre fine alla povertà estrema per miliardi di persone, che dobbiamo arrestare la crescita delle disuguaglianze e che abbiamo bisogno di una rivoluzione energetica. Tutti sanno che le diete industriali ci stanno uccidendo e che il modo in cui ci procuriamo il cibo sta devastando la natura. Sappiamo che le popolazioni umane non possono aumentare all’infinito. E sappiamo che la nostra impronta materiale non può crescere all’infinito sulla Terra, piccolo pianeta blu e verde... “Una Terra per tutti”... basandosi sulle valutazioni di esperti supportate da modelli di dinamica dei sistemi, esplora i percorsi possibili per uscire da tali emergenze, quelli che potrebbero portare più benefici a livello sociale, ambientale ed economico per tutti.

Aurelio PecceiChe piaccia o meno, il rapporto “The Limits to Growth” ha dato il via a un dibattito internazionale sulla civiltà, sul capitalismo, sull’uso appropriato delle risorse e sul nostro futuro collettivo, che è continuato per molti anni dopo la sua pubblicazione. È cosa nota che Ronald Reagan tentò di screditare il rapporto affermando: “Non ci sono grandi limiti allo sviluppo perché l’intelligenza umana, l’immaginazione e la meraviglia sono illimitate”. Reagan potrà avere avuto ragione riguardo all’illimitata capacità di immaginazione di noi umani, ma resta il fatto che viviamo su un pianeta fisicamente limitato ed estremamente affollato, che sta subendo enormi cambiamenti. È ora di cominciare a usare queste illimitate risorse dell’umanità per ripensare e costruire società più eque in cui i cittadini possano prosperare e abbiano la possibilità di realizzare i propri sogni entro i confini fisici della nostra sola e unica Terra. L’analisi del rapporto si è concentrata su due sistemi profondamente legati: le persone e il pianeta, o più esplicitamente l’economia globale e il sistema di supporto vitale della Terra. Il fondamento è il pensiero sistemico... i cui strumenti ci permettono di comprendere aspetti complessi della realtà, i cicli di feedback e la portata di alcuni eventi... 

Il rapporto ha utilizzato un modello computerizzato di dinamica dei sistemi creato per studiare gli sviluppi del benessere umano sul nostro pianeta che è stato definito Earth4All e che presenta anche la versione regionalizzata dove sono state distinte dieci grandi regioni del pianeta, che sono Stati Uniti, Europa, Pacifico, Est Europa e Asia centrale, Medio Oriente e Nord Africa, Cina, America Latina, Sudest asiatico, Asia meridionale e Africa sub-sahariana. Il rapporto esplora in particolare due dei vari scenari elaborati: quello definito Too Little, Too Late e Giant Leap. Questi scenari prendono forma a partire da due diverse domande... Che cosa succederebbe se il sistema economico che domina sul mondo e la biosfera continuasse a funzionare esattamente come ha fatto negli ultimi cinquant’anni? Le tendenze attuali in materia di riduzione della povertà, innovazione tecnologica e transizione energetica saranno sufficienti per evitare il collasso sociale e shock di portata planetaria? La seconda domanda ... è invece la seguente: che cosa succederebbe se, con un impegno straordinario, il sistema economico venisse trasformato per dare vita a una società più resiliente?   

L’analisi presentata nel rapporto mostra chiaramente come il prossimo decennio vedrà la trasformazione economica più veloce della storia. La scala di questa trasformazione può addirittura spaventare. È più grande:

  • del Piano Marshall, gli investimenti economici per la ricostruzione dell’Europa dopo ben due guerre mondiali;

  • della rivoluzione verde che negli anni Cinquanta e Sessanta portò una nuova forma di agricoltura industrializzata in Asia e in Africa e contribuì a sconfiggere la fame;

  • dei movimenti anticolonialisti che portarono alla nascita di nazioni indipendenti a metà del XXI secolo;

  • dei movimenti per i diritti civili che negli anni Sessanta permisero di raggiungere una maggiore uguaglianza di diritti per le minoranze ghettizzate negli Stati Uniti, in Europa e in qualunque altro posto;

  • dello sbarco sulla Luna che costò all’incirca il 2% del Pil americano negli anni Sessanta;

  • del miracolo economico cinese che negli ultimi trent’anni ha liberato dalla povertà 800 milioni di persone;

 È tutte queste cose messe assieme e potenziate. La sfida che affronta “Una Terra per tutti” è convincere che tutto questo è fattibile. Richiederà la creazione della più ampia coalizione che il mondo abbia mai visto. E dovrà accadere mentre nei prossimi decenni il potere economico passerà dal vecchio Occidente dominante a quello che nel rapporto viene definita la “maggioranza del mondo”. In tutto il mondo abbiamo bisogno di coinvolgere la maggioranza, forze politiche di destra e di sinistra, centristi e verdi, nazionalisti e globalisti, manager e lavoratori, mondo del business e società civile, elettori e politici, insegnanti e studenti, ribelli e tradizionalisti, nonni e teenager. Dovremo ricablare il sistema economico globale. In particolare, dobbiamo ripensare le dinamiche della crescita economica, così che le economie che hanno bisogno di crescere possano farlo mentre quelle che stanno consumando troppo possano sviluppare nuovi sistemi operativi. Richiederà di ripensare il consumo di risorse, che in assenza di questi cambiamenti di rotta potrebbe raddoppiare entro il 2060. Richiederà la riforma del sistema finanziario globale per passare da quello che ci sta conducendo sull’orlo del baratro a un sistema che garantisca prosperità a lungo termine. Una delle priorità consiste nel riprogettare il flusso monetario globale. Questo significherà aggiornare le istituzioni come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale per fare in modo che questo flusso rechi benefici ai poveri, non solo al 10% più ricco. Richiederà Stati più efficienti, più intelligenti e con maggiore spirito di iniziativa, che guardino al futuro mettendo al primo posto la sicurezza dei propri cittadini. I governi devono supportare attivamente l’innovazione, riformare i mercati e ridistribuire la ricchezza...

Il rapporto ritiene fondamentale il passaggio dall’attuale economia della crescita a un’economia del benessere, l’innovativo e variegato ambito di pensiero economico che ha dato vita, in particolare in questi ultimi decenni a cavallo tra la fine del Novecento e gli anni 2000, a importanti proposte operative di una nuova economia, come la caring economy, la sharing economy, la circular economy, l’ecological economics, la doughnut economics ecc. La wellbeing economy può essere definita come un modello che si mette al servizio delle persone e del pianeta anziché considerarli uno strumento al servizio dell’economia e inoltre opera per soddisfare non la crescita del PIL che ormai ha assunto il simbolo totemico della ricchezza di un paese, ma indicatori di benessere che diano realmente conto dello stato di salute delle persone e dell’ambiente. Porre il benessere come obiettivo per l’economia significa soddisfare i bisogni e le capacità umane nell’ambito della realtà biofisica di un pianeta con dei limiti. Inoltre il rapporto propone due nuovi importanti indicatori che sono definiti indice di benessere medio e indice di tensione sociale. Quest’ultimo segnala i livelli di disuguaglianza che sono alla base di profonde spaccature nella società, nonché all’emergere della malsana dinamica del “noi contro loro”, che può far entrare le società in circoli viziosi negativi per il futuro.

Il rapporto propone, sulla base di un’economia del benessere, cinque profondi cambiamenti di rotta che riguardano: porre fine alla povertà, affrontare e risolvere le crescenti disuguaglianze, sostenere l’emancipazione femminile, rendere il sistema alimentare sano per le persone e per l’ambiente, trasformare il sistema energetico utilizzando fonti energetiche pulite... Il rapporto Earth for All li connette tutti in un sistema dinamico, per valutare se insieme possono produrre una spinta sufficiente a orientare l’economia globale fuori dalla rotta distruttiva verso cui si sta indirizzando, avvicinandola a un percorso più resiliente. Ad esempio affrontare “solo” l’emergenza climatica richiederebbe la riconfigurazione del sistema energetico globale, base di tutte le economie, nello spazio di un’unica generazione. Molte delle soluzioni tecniche, come per esempio i pannelli solari, le turbine eoliche, le batterie e i veicoli elettrici, sono già disponibili e si stanno diffondendo in modo esponenziale... Il rapporto alla fine riassume le  proposte politiche presentate che sono qui riportate:

 Povertà

• Consentire al Fondo monetario internazionale di effettuare stanziamenti di oltre un trilione all’anno nei paesi a basso reddito per sviluppare i lavori verdi, creando investimenti attraverso i cosiddetti diritti speciali di prelievo.

• Cancellare tutti i debiti verso paesi a basso reddito (con reddito pro capite inferiore a 10.000 dollari).

• Proteggere le industrie nascenti nei paesi più poveri e promuovere lo sviluppo del commercio “da sud a sud”, ossia tra questi stessi paesi. Migliorare l’accesso alle energie rinnovabili e ai servizi sanitari rimuovendo gli ostacoli al trasferimento di tecnologia, compresi i vincoli di proprietà intellettuale.

 Disuguaglianze

• Aumentare le tasse sul 10% più ricco delle società fino a quando la quota di reddito nazionale posseduta non scenderà sotto il 40% del reddito nazionale. Il mondo ha bisogno di una forte tassazione progressiva; bloccare le scappatoie fiscali internazionali è essenziale per affrontare i destabilizzanti livelli di disuguaglianza e il “consumo di lusso” di carbonio e di biosfera.

• Creare un nuovo sistema di leggi per rafforzare i diritti dei lavoratori. In un momento di profonda trasformazione, hanno bisogno di protezione economica.

• Introdurre i Citizens Funds per dare a tutti i cittadini una giusta quota del reddito nazionale, della ricchezza e dei beni comuni globali attraverso schemi di commissioni e dividendi.

 Equità di genere

• Fornire accesso all’istruzione a tutte le ragazze e le donne.

• Raggiungere l’equità di genere nei posti di lavoro e nella leadership.

• Fornire pensioni adeguate.

 Cibo

• Emanare nuove norme per ridurre la perdita e lo spreco di cibo.

• Aumentare gli incentivi economici per l’agricoltura rigenerativa e per l’intensificazione sostenibile.

• Promuovere diete sane che rispettino i confini planetari.

 Energia

• Eliminare immediatamente i combustibili fossili e aumentare l’efficienza energetica e le energie rinnovabili. Triplicare immediatamente gli investimenti nelle energie rinnovabili per arrivare ad almeno un trilione di dollari all’anno.

• Rendere tutto elettrico.

• Investire nell’accumulo di energia su larga scala.

TORNA SU

 

21 settembre 2022. Nuovi modelli di sviluppo per la sostenibilità planetaria

di Toni Federico

Uno sviluppo ineguale delle economie e delle società ha caratterizzato il cammino del pianeta dopo l’Earth Summit di Rio del 1992. Era allora appena crollato il muro di Berlino e con esso l’Unione Sovietica, lasciando libero il campo all’egemonia del modello di sviluppo occidentale, sostanzialmente basato sull’economia di mercato e su reti multilaterali di sicurezza degli scambi e dei commerci (WTO, etc.). La guerra fredda si era conclusa non perché i problemi del capitalismo fossero stati risolti, ma perché la soluzione del cosiddetto comunismo reale aveva fallito[1]. Dalla fine della prima guerra mondiale le differenze di reddito delle persone nei paesi ricchi si sono ridotte e i sistemi di welfare sono diventati sempre più generosi. Ma quando l'opzione rivale ha cessato di esistere, i sistemi di mercato hanno avuto il campo sgombro, le aliquote fiscali per gli alti redditi sono state ridotte, i sindacati sono stati indeboliti e i divari dei redditi sono esplosi all’interno dei paesi e tra di essi. A Rio si dava per scontato che la ricchezza occidentale sarebbe stata condivisa con il gruppo di paesi in via di sviluppo, tanto che alcuni principi e le stesse convenzioni, tra cui quella climatica, esentarono i PVS da ogni obbligo ambientale in nome della pur sacrosanta acquisizione del concetto delle responsabilità condivise ma differenziate. Venne presto in campo la novità della globalizzazione, un modello di generalizzazione dei mercati che apportò benefici, come riconobbe il WSSD di Johannesburg del 2002[2], ma aumentò ancora le diseguaglianze, con i prezzi delle materie prime dei PVS imposti dai mercati a vantaggio dei più forti e, soprattutto con la commodification del lavoro e la delocalizzazione delle imprese. Ci furono forti movimenti di protesta giovanile sostenuti dai sindacati (Seattle, 1999; Genova, 2001) ma furono repressi senza tanti complimenti.

Sono impressionanti le cifre delle disuguaglianze di reddito, non certo le uniche a carico degli attuali sistemi perché vanno aggiunte le diseguaglianze di genere, dei diritti e dell’accesso alle risorse. Dal 1995, all'1% più ricco delle persone è andata una quota dell'aumento della ricchezza globale 20 volte superiore alla metà più povera della popolazione umana. Otto uomini ora possiedono la stessa quantità di ricchezza dei 3,6 miliardi di persone più povere del mondo[3]. Al di là di ogni preconcetto possiamo concludere che il modello di sviluppo occidentale è del tutto incapace di ristabilire una sia pur minima equità nella distribuzione delle risorse e dei diritti, mentre continua a subire gravi crisi cicliche della economia e della finanza che ora dilagano inarrestabili sul mercato planetario, e si dimostra altrettanto incapace a prevenire e fronteggiare le crisi sanitarie globali[4] e a difendere la pace.

Il quadro economico e geopolitico mondiale è però in evoluzione, tanto che si può ormai dire che il modello occidentale ha di nuovo competitori sul terreno, frutto anche del deficit delle politiche globali che, anziché integrazione, hanno generato competizione e anziché placarli, hanno portato i conflitti armati da una prevalente dimensione regionale ad una pericolosa generalizzazione. Non c’è più, dunque, la stabilità che ci aveva illuso di poter governare uno sviluppo sostenibile su scala mondiale mediante l’approccio multilaterale e le Nazioni Unite. Nuove realtà multinazionali sono cresciute più o meno rapidamente. La Cina, anzitutto, guida indiscussa ed interessata dei paesi poveri, è ora alla pari degli occidentali su molti indicatori, emissioni ed inquinamento compresi. L’Africa, l’America Latina e il Medio Oriente non sembrano più disposti a cedere le loro materie prime al prezzo stabilito dagli occidentali. Per ultima, sgradita, ricompare la nazione panrussa alla ricerca del suo posto al sole con le mani sui rubinetti del gas e del petrolio. Stupefatti, gli occidentali, che una realtà con un PIL così infimo si possa permettere di aggredire e ricattare con metodi quantomeno pre-moderni, insensibile al progresso e capace di trasferire materie prime in armamenti senza l’ombra di mediazioni democratiche.

In queste nuove realtà emergenti di democrazia c’è n’è ben poca e nel nostro mondo di paesi ricchi si insinuano dubbi e incertezze, anche per il fallimento disastroso dei tentativi di esportare la democrazia con le armi. Le armi  sono rimaste, della democrazia nessuna traccia.

La trasformazione del quadro mondiale si legge molto chiaramente nella evoluzione del negoziato mondiale sullo sviluppo sostenibile. A Rio+20, del 2012, si arrivò con un’agenda concordata tra Europa e UNEP che mirava ad assegnare a quest’ultima la governance dello sviluppo sostenibile sul comune impianto concettuale della Green economy[5]. Bloccarono il tentativo per interessi speculari la Cina, indisponibile a farsi imporre modelli di sviluppo eterodiretti, e gli Stati Uniti, come sempre sostanzialmente nemici delle istanze green troppo invasive. In quell’occasione lo sviluppo sostenibile fu promosso ai livelli più alti delle Nazioni Unite, investendo l’Assemblea Generale e l’ECOSOC con un forum dedicato l’HLPF  e in tre anni di faticosi negoziati si pervenne con l’Agenda 2030 e l’Accordo di Parigi (2015) ad una nuova modalità di governance, non più basata sul Command and Control, top-down, ma sull’adesione volontaria e proattiva, bottom-up, dei diversi Paesi agli obiettivi degli SDG e di Parigi, al cui storico Accordo i Paesi accedono attraverso degli NDC[6], assunzioni unilaterali e volontarie di impegni periodicamente rivisti in crescita.

Anche l’Europa è passata dalle affermazioni di principio di una Green economy universale al Green Deal, un patto interno stringente per obiettivi, che mette al centro la decarbonizzazione dell’economia entro il 2050 con un severo milestone al 2030, l’economia circolare e la protezione della natura, in un quadro sociale dichiaratamente inclusivo. Ma l’economia è sempre quella, il modello di economia di mercato vira verso il green ma la pelle non cambia e le istanze di abbattimento delle diseguaglianze restano fuori. Possiamo in sintesi pensare chee diseguaglianze rimangono il differenziale netto tra Green Deal e Sviluppo sostenibile.

Il modello di sviluppo cinese, un capitalismo autocratico basato sulla programmazione da parte del Partito unico, è forse migliore del modello occidentale? Di democrazia non si parla, di diritti ancor meno. L’aggressività militare è per ora bassa. Alla Cina va riconosciuto il merito di aver tratto fuori dalla povertà un quinto della popolazione mondiale, di aver raggiunto la parità tecnologica e il predominio commerciale e finanziario, ma non sappiamo niente delle diversità città-campagna e della repressione delle minoranze (Tibet, Uiguri, Hong Kong). Sappiamo invece che quel sistema è piuttosto refrattario alle istanze libertarie occidentali, ma i conti con quelle comunità vanno fatti alla luce del sole, non attraverso il riarmo nascosto. Il ruolo della Cina è stato determinante nella diplomazia climatica. Da Rio in poi ha fermamente difeso il suo diritto all’esenzione dagli impegni di mitigazione che la stessa Convenzione delle Nazioni Unite gli riconosce, ed ha capeggiato il gruppo dei 77 PVS (G77) con la ferma determinazione che i prezzi da pagare spettano ai paesi occidentali, responsabili di gran lunga del cambiamento climatico per aver emesso gran parte delle emissioni storiche di gas serra, quelle che determinano il global warming presente e futuro. La Cina non ha fatto l’andirivieni degli USA dentro e fuori dalla Convenzione e a Parigi ha accettato di rinunciare alla prerogativa di paese non responsabile e farsi carico per la prima volta di impegni diretti e pubblici in fatto di abbattimento delle emissioni che, su base annua, la vedono al primo posto con poco meno del 30% delle emissioni globali GHG e CO2. Per contro la Cina e i G77 rimangono intransigenti sul fatto che la finanza per il clima, GCF e Loss and damage, devono restare a intero carico dei paesi ricchi e che gli altri eventuali contributi sono eventuali e solo su base volontaria.

Come trovare un modello di sviluppo che ci indirizzi, con tutte le diversità, allo sviluppo sostenibile?[7] Il quadro del negoziato multilaterale deve essere salvaguardato e rafforzato. In occidente se ne discute a fondo. Il riconoscimento delle attuali insufficienze è ormai largamente condiviso e da molte parti si parla di nuovo capitalismo[8],[9]. Nessuna teoria sembra però capace di superare il muro di Piketty espresso dalla famosa formula r>g[10], cioè che il tasso di rendimento del capitale, da cui i ricchi traggono normalmente la loro ricchezza, supera anche più di cinque volte i tassi di crescita economica da cui dipendono i redditi della maggior parte delle persone. I dati storici prodotti a profusione dimostrano che tale è la condizione definitiva del capitalismo, salvo che nei periodi delle ricostruzioni postbelliche del secolo scorso quando il capitale finanziario fu giocoforza al minimo e la rendita con esso. Le disuguaglianze creano una gerarchia e determinano le distanze sociali. Invece di incoraggiare lo spirito pubblico, la coesione e la fiducia che possono fiorire una comunità di quasi uguali, grandi differenze materiali esacerbano sentimenti di superiorità e inferiorità all’interno dei paesi e tra paesi poveri e ricchi. La struttura sociale si ossifica e la mobilità sociale diminuisce. In breve, le disuguaglianze creano una condizione di blocco dello sviluppo sostenibile. Vediamo aumentare nel mondo l'ostilità politica verso i paesi ad alto reddito, i più responsabili delle crisi economiche ed ambientali. Quello che sta avvenendo è uno spostamento di prestigio e influenza tra i leader delle comunità maggiori, dagli Stati Uniti non più credibili come portabandiera della democrazia, alla Cina che non cessa di ricordare al mondo che, nonostante gli abusi nei diritti umani, loro hanno poca responsabilità storica per le emissioni di anidride carbonica, la schiavitù e il colonialismo[11]. Per limitare la crescente influenza del socialismo autoritario della Cina il mondo occidentale deve abbandonare la sua ideologia ipercapitalista e tornare verso un socialismo di mercato partecipativo, post-coloniale e solidale ai paesi a reddito medio e basso, in grado di rispondere efficacemente alla crisi ambientale. I due poli sociali e politici dominanti devono cioè avvicinarsi, non invece arroccarsi su contrapposizioni economiche e militari come sembra si stiano apprestando a fare. L’Agenda 2030 può essere la guida di questo avvicinamento. Essa indica obiettivi che, si devono tradurre a livello dei governi in altrettante missioni6.  Una missione deve essere ambiziosa, chiara nel proposito di migliorare la qualità della vita delle persone, ed avere un’ampia risonanza sociale. I suoi obiettivi devono essere concreti, misurabili e delimitati nel tempo, come la decarbonizzazione del Green Deal. Qui viene al punto il nuovo ruolo per le amministrazioni pubbliche, che non deve più essere solo quello di ridurre i rischi per il capitale privato, ma essere l’investitore di prima istanza e non di ultima, capace di attirare investimenti privati aumentando l’effetto moltiplicatore ed orientando le istituzioni finanziarie. Come stiamo sperimentando in Italia in queste prime fasi del PNRR, perché ciò sia possibile, abbiamo bisogno di potenziare di molto la capacitazione del settore pubblico e di tagliar via le tentazioni ricorrenti di ricorrere alla esternalizzazione della guida e del monitoraggio dei progetti a società private esterne o a consulenti professionali. Qui sta la chiave del nuovo rapporto tra pubblico e privato. Il pubblico definisce le missioni in nome del bene comune[12], le struttura e le finanzia per la sua parte, il privato coinveste e coopera al raggiungimento degli obiettivi, non certo attraverso la flebile responsabilità sociale d’impresa, la beneficenza o l’allargamento della platea degli stakeholder, ma come ramo determinante della catena del valore della missione dove si produce ricchezza in maniera più equa perseguendo allo stesso tempo gli obiettivi della società. Non si tratta di far entrare i governi tra gli azionisti delle società, quindi nelle loro logiche privatistiche. Si tratta invece di arruolare il sistema industriale nelle missioni pubbliche, finanziare, usare le leve fiscali e sistemi di monitoraggio severi e capaci di valutare le performance di ogni attore, quindi anche di mandare a casa e sostituire i manager che non hanno raggiunto gli obiettivi assegnati. Non sfugge che tutto ciò richiede una profonda revisione dei percorsi formativi ad ogni età.


[1] Wilkinson R., Pickett K.; 2022; Tackling inequality takes social reform; Nature, vol. 606, 23 June 2022

[2] United Nations; 2002; Johannesburg Declaration on Sustainable Development; World Summit on Sustainable Development, A/CONF.199/20

[3] Oxfam International; 2022; Inequality Kills. The unparalleled action needed to combat unprecedented inequality in the wake of COVID-19; Oxfam GB, Oxfam House, John Smith Drive, Cowley, Oxford, OX4 2JY, UK

[4] Mazzucato M.; 2020; Non sprechiamo questa crisi; Laterza

[5] UNEP; 2011; Towards a Green Economy: Pathways to Sustainable Development and Poverty Eradication; A Synthesis for Policy Makers; www.unep.org/greeneconomy

[6] UNFCCC; https://unfccc.int/process-and-meetings/the-paris-agreement/nationally-determined-contributions-ndcs/nationally-determined-contributions-ndcs

[7] Giovannini E., Barca F.; 2020; Quel mondo diverso da immaginare per battersi e che si può realizzare; Laterza

[8] Mazzucato M.; 2021; Missione economia. Una guida per c ambiare il capitalismo; Laterza

[9] Schvab K., WEF; 2021; Stakeholder Capitalism: A Global Economy that Works for Progress, People and Planet; Wiley

[10] Piketty T.; 2016; Il capitale nel XXI secolo; Bompiani

[11] Piketty T.; 2022; A Brief History of Equality; Belknap

[12] Ostrom E.; 1990; Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action; Cambridge University Press

TORNA SU

 

 

9 Febbraio 2022. La modifica della Costituzione introduce lo sviluppo sostenibile come riconoscimento dei diritti delle generazioni future alla pari con la nostra generazione

è stato Enrico Giovannini a farsi carico dell'introduzione dello sviluppo sostenibile tra i principi fondamentali della Carta costituzionale. L'opera è riuscita in parte: la sostenibilità è tutta nel nuovo Art.9 dove la tutela ambientale ed ecosistemica è introdotta anche nell'interesse delle generazioni future. Come si ricorderà i diritti delle generazioni future sono il contenuto essenziale della definizione di sviluppo sostenibile nella definizione primigenia della Brundtland nel suo rapporto alle Nazioni Unite "Our Common Future". Storicamente, poi, il concetto di sviluppo è finito sotto la lente di ingrandimento per il suo significato che, in lingua italiana, è duplice e va da crescita a progresso. Il termine sviluppo non sarebbe quindi sufficientemente tanto chiaro da poter essere introdotto in un testo come la Costituzione italiana.

Il testo modificato degli articoli 9 e 41 della Carta costituzionale ha concluso all'unanimità il suo lungo iter parlamentare. L'Articolo nove è modificato solo per aggiunta del testo in corsivo:

"La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”.

Il provvedimento modifica, inoltre, l’articolo 41 della Carta, prevedendo che l’iniziativa economica privata e pubblica non possa svolgersi in modo da recare danno alla salute e all’ambiente e che la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica  possa essere indirizzata e coordinata a fini ambientali:

"L’iniziativa economica privata è libera. L’ordinamento stabilisce i presupposti più favorevoli al suo esplicarsi. Chi la assume ne è esclusivo responsabile. Deve svolgersi in condizioni di concorrenza, trasparenza, rispetto dell’ambiente. Non deve recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina gli interventi diretti a rimuovere le carenze del mercato lesive dell’utilità sociale".

Non c'è stata una particolare esultanza sui media, TV, giornali etc. Non è chiaro se si tratti di sottovalutazione o della solita invincibile mancanza di cultura della nostra gente. Non aiuta l'ineffabile Ministro della transizione ecologica che ha rivendicato (senza alcun merito) l'importante novità costituzionale, in nome, ha dichiarato pubblicamente, dei suoi cani dei suoi gatti e dei suoi pappagalli che ora sono tutelati. E le generazioni future?

 

TORNA SU

 

14 gennaio 2022. L'Italia ha già fatto la sua transizione al gas (Andrea Barbabella su La "Repubblica")

 

Diversamente da quanto si potrebbe pensare ascoltando il dibattito nostrano sull’energia, in Italia i potenziali della transizione al gas naturale sono già stati ampiamente sfruttati. Quella che ci aspetta nei prossimi anni è decisamente un altro tipo di transizione energetica, basata sulla forte crescita delle rinnovabili e sulla contestuale riduzione dei combustibili fossili. Incluso il gas. Tradizionalmente tra le grandi economie europee l’Italia è quella con la più alta dipendenza dalle importazioni di energia, essenzialmente fossili: nel 2019 bel il 77% del fabbisogno nazionale è stato soddisfatto dalle importazioni, a fronte ad esempio di una media europea del 61%. Oramai da alcuni anni il gas naturale, certamente un combustibile fossile un po’ meno inquinante degli altri ma con un impatto rilevante sul clima, ha superato il petrolio diventando la prima fonte energetica nazionale. Per contrastare il cambiamento climatico in corso e rispettare gli impegni europei, l’Italia dovrebbe quasi dimezzare le attuali emissioni di gas serra nel decennio in corso, per arrivare a neutralizzarle entro i vent’anni successivi. Per questo da qui al 2030, prossima milestone del percorso verso la neutralità climatica, la sfida che ci attende sarà quella di far diventare le rinnovabili la prima fonte di energia in Italia. Questo vuol dire certamente far crescere le rinnovabili a ritmi senza precedenti, ma anche tagliare sostanzialmente i consumi di tutti i combustibili fossili, incluso il gas i cui consumi dovranno ridursi significativamente in quasi tutti i settori (con l’eccezione del trasporto merci e marittimo, dove dovrebbe sostituire i prodotti petroliferi trainato dalla crescita del biometano). Secondo la roadmap tracciata da Italy for Climate, i consumi nazionali di gas naturale dovrebbero passare dai quasi 75 miliardi di metri cubi del 2019 a poco più 50 miliardi nel 2030: un taglio del 30%.

Questi sono i dati sui consumi complessivi di gas naturale, cioè quello impiegato negli usi domestici, nei processi industriali, nella produzione di elettricità e nei trasporti. Ma il dibattito sul gas come combustibile della transizione in Italia riguarda in particolare il comparto della generazione elettrica: forse per questo specifico utilizzo le cose stanno diversamente? Non tanto, direi. Anche in questo caso l’Italia vanta una leadership, essendo diventato il Paese con i più alti consumi di gas naturale per la generazione elettrica:sempre nel 2019 con il gas in Italia sono stati prodotti oltre 140 miliardi di kWh dielettricità (quasi la metà della produzione elettrica nazionale), contro ad esempio poco più di 130 del Regno Unito e 90 della Germania. Ma come per i consumi complessivi, anche per quelli destinati alla sola generazione elettrica la roadmap dell’Italia verso la neutralità climatica imporrebbe un sostanziale ridimensionamento: la produzione di elettricità da gas naturale dovrebbe passare, infatti, dagli oltre 140 miliardi di kWh del 2019 ai poco più di100 miliardi di kWh del 2030 (-27%). Se l’Italia vuole davvero contrastare la crisi climatica e mettersi in rotta verso un’economia a zero emissioni, non c’è posto per una crescita del gas naturale nella transizione del Paese. Stando così le cose, specie per un Paese come l’Italia senza nucleare e soprattutto con poco carbone da sostituire, penso che parlare oggi di nuovi investimenti nel gas naturale per promuovere la transizione energetica, a cominciare dalla generazione elettrica,potrebbe rientrare a pieno titolo nella categoria dei bla bla bla.

TORNA SU

7 gennaio 2022. Nucleare out, prima che sia troppo tardi

 

Non riusciamo a nascondere la delusione per il compromesso contenuto nella proposta proveniente dalla Commissione Europea che introdurrebbe a certe condizioni il nucleare da fissione e il gas naturale tra le forme di energia green accreditate nella tassonomia che consentirebbe loro di accedere ai finanziamenti europei destinati alla transizione ecologica nel quadro del Green Deal. Alla data di oggi la questione è tutt'altro che chiusa, come la Fondazione ha chiarito in due note su Huffington Post a firma del Presidente Edo Ronchi a cavallo del nuovo anno. Invitiamo alla lettura delle due note che forniscono un quadro chiaro dell'evoluzione della questione. Si potrebbe commentare che prima o poi la Commissione avrebbe dovuto prendere una cantonata, sotto la pressione di interessi molto concreti di vari paesi.  La questione gas/nucleare in Europa è però diventata troppo grave per farne oggetto di semplici prese d'atto. Non possiamo più limitarci a diffondere le posizioni della Commissione e dobbiamo fare conto che la recente decisione della Germania di chiudere le sue sei centrali nucleari entro l'anno e lo schieramento contrario di una serie di paesi (non dell'Italia, al solito) prevalga nell'europarlamento cui spetta l'ultima parola a maggioranza semplice. le sorti del gas e del nucleare si intrecciano in una rete complessa di interessi, di visioni e di do ut des. La confusione è creata ad arte per arrivare agli obiettivi delle varie parti, ma, per tagliare il nodo gordiano, il gas naturale ha un ruolo tanto indiscutibile quanto decrescente nel percorso della transizione energetica europea al 2030 e al 2050. La fissione nucleare non ne ha nessuno.

Prendiamo atto con soddisfazione che Enrico Letta, per conto della forza politica italiana di maggioranza relativa, ha preso una posizione netta dicendo che: “Non ci piace la bozza di tassonomia verde che la Commissione UE sta facendo circolare. L’inclusione del nucleare è per noi radicalmente sbagliata. E il gas non è il futuro, è solo da considerare in logica di pura transizione verso le  energie rinnovabili“. L'uovo di Colombo, ma al di là dei 5*, dei verdi, di LEU e dei radicali la musica cambia di molto e nello stesso Governo ci sono voci importanti di parere opposto. A noi non sfugge che il rilancio del gas e più ancora del nucleare è un tentativo mal dissimulato da parte italiana di rallentare ulteriormente lo sviluppo delle fonti rinnovabili che, uniche, ci possono dare certezza dell'obiettivo europeo obbligatorio di abbattimento delle emissioni del 55% al 2030. Come fu al tempo dei due referendum per l'abbandono del nucleare,  una eventuale scelta a favore del suo rilancio resta anzitutto di natura politica e sconta un'opposizione sociale che nel nostro paese è senza se e senza ma, come dimostra la vicenda del deposito unico delle scorie nucleari che non ha fatto un passo in avanti in quarant'anni, salvo rimanere come balzello fisso sulle bollette elettriche. Non vorremmo essere noi a rilanciare un dibattito su presunte basi scientifiche con tematiche che ci hanno a suo tempo torturato per anni, lasciando favorevoli e contrari sulle loro posizioni.

Guardando senza infingimenti alla situazione italiana resta misteriosa la posizione del governo. Non viene chiarito cosa materialmente si intende fare dopo aver sottoscritto il Green Deal europeo, incassato i soldi del Next generation EU e aver accolto i regolamenti del Fit for '55. La strada al 2030 è tracciata, è breve e non lascia spazio a visioni avveniristiche o, meglio, retrotopiche. Il 2030 si fa con le rinnovabili, con lo stoccaggio elettrico e con il gas naturale per quello che resta, biogas compreso. Già un anno se ne è andato e non si vede l'impegno necessario né una comunicazione politica per sgomberare la strada dalla caterva di obiezioni, opposizioni e mal di pancia che si frapporranno allo sviluppo delle rinnovabili. Nessuna notizia ci rende sicuri dell'aggiornamento del PNIEC e, per quanto riguarda una legge italiana sul clima, indispensabile come la Fondazione ha più volte affermato, nemmeno se ne parla. Manca qualsiasi rilancio allo spirito referendario sul nucleare che pure è stato la culla di ogni iniziativa ecologista in Italia. Basterebbe ricordare il principio di precauzione e perfino la regola del do not harm, più che sufficienti dal momento che non esistono metodi di trattamento completo dei rifiuti di lunga durata ed alta radioattività. Che dire poi dei rifiuti militari di  cui nulla è dato sapere salvo che, anche in Europa, gli armamenti vengono frequentemente rinnovati con il rilascio dei vecchi materiali. E che dire dei sottomarini sovietici affondati o dell'uranio impoverito finito sul fondo dell'Adriatico. Il ciclo nucleare forse così green da rientrare nei parametri dell'economia circolare, si domanda Ronchi?. Sul rischio nucleare, poi, il dibattito è stucchevole. Secondo gli interessati è ingegneristicamente trascurabile. Suggeriamo di  fare un banale calcolo: quattro incidenti da gravi a gravissimi,  Three Mile Island, Creys Malville (tecnologia di quarta generazione fallita, centrale chiusa), Chernobyl e Fukushima,  su un totale di 441 reattori in operazione (molti concentrati in un solo sito) fanno una probabilità di incidente grave del 9 permille, 0,9%; ordini di grandezza al di sopra delle cifre di rischio dichiarate. Sui danni alla salute si mente e si continua a mentire. Non esistono conti ufficiali sugli effetti a lungo termine e a grande distanza della stessa Chernobyl e nemmeno sul numero delle vittime a scala locale. L'Italia ha abbandonato ogni parte del sistema industriale nucleare e pensionato tutti i tecnici e gli ingegneri, quorum ego. Oggi potremmo solo comprare impianti e combustibili da qualcuno, USA, UK, Francia, Kazakistan,  e importare tecnici ed ingegneri, per rifare i quali ci vorrebbero più dei trent'anni da qui al 2050. Tra le cose che ci dispiacciono della Commissione europea non possiamo fare a meno di citare il recente Rapporto dello JRC di Ispra, peraltro fortemente criticato da studi svolti nella stessa Europa. Il fatto che sia un organo tecnico della Commissione e che, se questa fa compromessi, quelli sono obbligati, non ci conforta affatto. La terzietà dovrebbe essere obbligatoria per chi fa scienza.

Il nucleare non ha più sostegno sociale in gran parte del mondo occidentale ed è di gran lunga la fonte energetica più costosa. L'attacco più comune alle rinnovabili si basa sull'occupazione di suolo ma,soprattutto, sull'intermittenza. Ebbene, le centrali nucleari richiedono settimane per andare a regime e non possono stabilizzare la rete. Devono andare invece in background continuo, ragione per la quale la Francia vende l'energia elettronucleare a due soldi la notte perché non può fermare le centrali. La rete si stabilizza ora con il gas naturale e progressivamente con lo stoccaggio, la interconnessione continentale e le smart grid.

Per quanto riguarda il gas attenzione a due equivoci. Il biogas è una cosa e il gas naturale è un'altra. Però la Commissione vorrebbe i limiti di emissione a 270 g/kWh, cioè è di gas fossile che parla.

Il nucleare da fusione è invece benvenuto, potrebbe essere definito green con qualche attenzione e comunque a molto maggior titolo, ma quello di cui si parla  è nucleare da fissione la cui IV generazione è puro frutto di fantasia. La fusione nucleare potrebbe avere diritto di stare nella tassonomia europea, dove invece non c'è. I nostri referendum, a differenza di quanto sembrerebbe aver detto il ministro competente per l'energia,  non hanno bloccato la fusione che infatti è l'oggetto unico della ricerca ENEA di Frascati e di un gran numero di partnership internazionali di cui siamo parte.

Molto malvolentieri dobbiamo ammettere che la questione è tutt'altro che chiusa. Staremo a vedere.

TORNA SU

 

3 giugno 2021. Il Wuppertal e il E3G pubblicano le analisi degli effetti ambientali dei PNRR dei vari paesi. L'Italia, il paese più dotato di contributi, è il fanalino di coda

Il Primo Ministro Draghi ha presentato il Piano italiano di Recupero e Resilienza (PNRR) definitivo il 27 aprile 2021. Il piano attinge a un totale di 235 Mld€, di cui 191,5 provenienti dal NGEU (sovvenzioni 68,9 miliardi di euro, i prestiti rimanenti), 13 dal Fondo UE REACT e 30,6 da un fondo complementare che utilizza fonti di finanziamento nazionali. Nel complesso, per l'Italia, le misure di risanamento sono inferiori al potenziale di transizione green dei fondi di risanamento disponibili. L'analisi del Green Recovery Tracker identifica le seguenti quote di spesa:

Dal rosso al verde la qualità ecologica min-max degli investimenti

 

Mentre il piano prevede investimenti in misura rilevante per la transizione green, vi è un significativo squilibrio nell'allocazione dei fondi tra settori e attività. Molti degli investimenti green del piano possono solo determinare uno spostamento minimo verso un'economia climaticamente neutra e sembrano piuttosto insignificanti rispetto alle esigenze di una transizione verso un'economia decarbonizzata. In particolare, si evidenzia una mancanza di adeguato supporto per i pilastri essenziali per la transizione: l'espansione della generazione di energia elettrica rinnovabile, l'uso diretto dell'elettricità e la mobilità sostenibile a livello urbano.

l piano e le relative riforme favoriscono le procedure autorizzative per le infrastrutture del gas senza spingere l'elettrificazione nell'uso finale dell'energia. C'è anche il dato che una quota relativamente elevata dei fondi per il recupero sarà assegnata a progetti su, ad esempio, biometano e idrogeno, riconducibili al settore del gas. In alcuni casi, le attività del gas fossile  possono accedere direttamente alle risorse di recupero, ad esempio attraverso il supporto per le caldaie a gas negli investimenti per l'efficienza energetica o il sostegno agli autobus alimentati a gas, che creeranno un lock-in infrastrutturale che rallenterà la transizione climatica.

Il piano di rilancio dell'Italia  raggiunge una quota di spesa green del 16%, al di sotto del parametro di riferimento del 37% dell'UE. Allo stesso tempo, troviamo che il 26% (49,5 Mld€) potrebbe avere un impatto  positivo o negativo sulla transizione verde a seconda dell'attuazione delle misure attuate. Secondo il governo, il PNRR raggiungerebbe una quota di spesa per il clima del 40%. Nel valutare l'intero pacchetto di risanamento (compresi NGEU, REACT EU e Fondo complementare), l'Italia raggiunge una quota di spesa green del 13%. Inoltre, troviamo che, complessivamente, il 28% (66,7 Mld€) può avere un impatto positivo o negativo sulla transizione green a seconda dell'attuazione delle misure pertinenti.

Non vediamo una strategia globale per la transizione verde e nessun uso strategico dei fondi PNRR. Le risorse per le misure rilevanti per la transizione ecologica sono disperse in varie piccole componenti ed elementi, p. es. nelle misure di sostegno alle isole green o all'agrivoltaico, con pochi finanziamenti per la decarbonizzazione industriale o altre importanti aree della transizione, in particolare per quanto riguarda il greening della fornitura di energia elettrica e l'elettrificazione. Esistono, inoltre, significative misure di sostegno che possono finire per favorire il gas fossile, come gli investimenti in biometano e idrogeno, mentre manca una strategia per l'elettrificazione e un aumento della fornitura di energia elettrica rinnovabile. Nel complesso, nonostante le sue dimensioni, il prezzo consigliato non lo fa non forniscono un chiaro impulso alla transizione verso un'economia climaticamente neutra.

Lo scarso supporto per l'utilizzo diretto dell'elettricità, soprattutto nel settore dei trasporti, danneggia la lotta ai cambiamenti climatici.  Gli investimenti complessivi in ​​mobilità elettrica sono di appena 1,2 Mld€. Ci sono altre risorse destinate al trasporto pubblico nei comuni, ma non è chiaro che sosterranno la mobilità elettrica e c'è il rischio che questi fondi possano supportare veicoli a gas fossile. Notevolmente bassa la quota di investimenti in mobilità elettrica, con i finanziamenti dell'UE per la ripresa, rispetto agli altri paesi dell'UE.

Occorre prestare attenzione ai nessi tra il piano di rilancio e la politica climatica generale: il PNRR fissa arbitrariamente obiettivo nazionale di riduzione delle emissioni al 51% entro il 2030, rispetto al 1990. Non è affatto l'obiettivo nazionale ufficiale di decarbonizzazione. Tuttavia, il piano non collega specificamente le misure di recupero individuali con questo obiettivo generale. Gli impatti complessivi quantificati dal piano ammontano ad una riduzione di 5,6 Mt CO2e, solo il 3% delle necessarie riduzioni delle emissioni fino al 2030. Tuttavia, deve essere osservato che non sono fornite stime per molte misure pertinenti, anche nell'edilizia, la mobilità e i trasporti.

è grave la mancanza di ambizione sulle rinnovabili: nel complesso, il PNRR prevede finanziamenti per 4,2 GW di capacità di generazione rinnovabile aggiuntiva,solo il 70% dei 6 GW che sono necessari in ogni singolo anno per essere sulla buona strada per il 2030. Questo obiettivo è anche significativamente al di sotto della quota nazionale italiana assegnata dalla Commissione che chiede che gli Stati membri utilizzino i fondi di recupero per sviluppare il 40% del 500 GW di capacità di generazione richiesta in tutta l'UE entro il 2030. Le singole misure a sostegno delle rinnovabili sono frammentarie e non legate a una strategia più ampia: non c'è strategia per l'eolico offshore, ma solo un budget generico di 0,6 Mld€ per le tecnologie, molto probabilmente per  la generazione dalle maree. Il supporto chiave per il solare fotovoltaico (2,2 Mld€) è riservato ai comuni con meno di 5000 abitanti e non è accompagnato da alcuna riforma. Sono stati stanziati ingenti fondi per sostenere lo sviluppo del solare fotovoltaico su terreni agricoli (agrivoltaico), con investimenti di 1,5 Mld€ per soli 430 MW. Infine, non ci sono risorse finanziarie o riforme strategiche per sviluppare lo stoccaggio di energia, nonostante l'obiettivo del PNIEC di sviluppare 10 GW di capacità di stoccaggio.

Per l'efficienza energetica vengono complessivamente stanziati 22 Mld€. La maggior parte, 18,5 Mld€, viene utilizzata per un meccanismo di rimborso fiscale (ecobonus) che consiste in un rimborso del 110% dei costi di ristrutturazioni edilizie, con costi relativamente elevati. Purtroppo il meccanismo non è supportato da forti condizionalità di efficienza, poiché richiede un miglioramento di sole due classi energetiche e consente investimenti nel gas fossile per gli impianti di riscaldamento. Non esiste inoltre una strategia di efficienza energetica per il settore pubblico. Infatti, per il miglioramento dell'efficienza degli edifici scolastici, si parla di 195 edifici scolastici su un totale di 32.000, destinando nel contempo ulteriori risorse alla ristrutturazione degli edifici senza vincolo di efficientamento.

Non c'è spinta per la mobilità elettrica e l'allocazione dei fondi per la mobilità è squilibrata: nonostante l'ampio budget complessivo dedicato alle misure di mobilità, in particolare all'alta velocità, il PNRR non destina molte risorse alla promozione della mobilità elettrica e al greening del trasporto pubblico locale. Meno dell'1% dei fondi complessivi è destinato all'elettrificazione della mobilità, con un rischio significativo che l'Italia resti sempre più indietro nel passaggio alla mobilità elettrica. Lo squilibrio nell'allocazione dei fondi nel settore della mobilità sta nella cospicua quota di fondi destinati alle linee ferroviarie a lunga e media distanza rispetto alla mancanza di fondi per intervenire sulla maggior parte dei problemi urgenti nel settore. Nello specifico, le misure fanno poco per ridurre le emissioni a partire dal trasporto stradale e per ottimizzare la qualità dell'aria nelle città, nonostante quest'ultima sia una raccomandazione prioritaria della Commissione Europea nel processo del semestre europeo per il settore trasporti. Secondo la stessa valutazione del governo, gli investimenti  significativi nell'infrastruttura ferroviaria ad alta velocità porteranno a riduzioni delle emissioni di soli 2,3 MtCO2e, una piccolissima parte delle riduzioni di 174 MtCO2e richieste complessivamente entro il 2030 sulla base dell'obiettivo di decarbonizzazione incluso nel PNRR.

Alcune delle riforme incluse nel PNRR consistono nell'accelerare l'iter autorizzativo per le infrastrutture della nuova energia, in linea con gli obiettivi fissati nel PNIEC. C'è il rischio che la riforma proposta favorisca principalmente le centrali elettriche a gas, tanto più che il meccanismo italiano del Capacity Market ha già attivato richieste di autorizzazione di ca. 15 GW di capacità aggiuntiva di gas. Allo stesso tempo, secondo il gestore del sistema di trasmissione Terna, la domanda di punta di 58,8 GW è già significativamente inferiore alla capacità complessiva della rete esistente (119,3 GW). È particolarmente problematico che le centrali termiche, come le centrali a gas, siano autorizzate a livello centrale, mentre la maggior parte degli impianti di energia rinnovabile deve essere approvata a livello regionale, rendendo più complesso il processo di autorizzazione dei progetti di energia rinnovabile. Inoltre, le riforme includono potenziali allentamenti dei regolamenti dei processi autorizzativi per le infrastrutture ferroviarie ad alta velocità, idrogeno e biometano. Mentre una semplificazione delle procedure amministrative è necessaria in linea di principio, data l'attuale complessa infrastruttura della pubblica amministrazione, si teme che ciò possa anche indebolire importanti disposizioni per la protezione dell'ambiente. Sono già molte le associazioni che denunciano i provvedimenti semplificativi delle autorizzazioni temendo che il paesaggio possa essere compromesso dall'invasione dei generatori rinnovabili.

Le principali misure del PNRR in ogni settore con effetti sulla transizione ecologica

 

TORNA SU

 

 12 gennaio 2021. Il governo pubblica un PNRR inadeguato

 

Nella bozza del PNRR, presentata dal Consiglio dei ministri il 12 gennaio, v’è una grande questione politica: l’inadeguatezza di una proposta molto lontana da quanto ci si sarebbe aspettati oltreché dagli standard europei. Il programma europeo NGEU, Next Generation EU,  mette a disposizione risorse senza precedenti per il nostro Paese, ma per ricostruire meglio e in modo diverso, con innovazione, sostenibilità, attenzione al disagio sociale e alle disuguaglianze cresciute in questi anni. Nel testo del 12 gennaio, non c’è l’Allegato con le schede progetto necessarie per comprendere la concreta articolazione delle proposte. 

Questa situazione chiama in causa Governo ed opposizione, cui si chiede di parlare al Paese del merito delle proposte, della visione che si vuole portare avanti in modo da andare oltre le scelte ordinarie. È inaccettabile che si dica che non ci sono i tempi per aprire un confronto su queste proposte, pena problemi con Bruxelles e ritardi nel far partire i cantieri.

Gli obiettivi del piano italiano sono numerosi e raggruppati in ben 6 missioni. NGEU è invece centrato su pochi obiettivi, con una priorità molto chiara: un Green Deal basato sulla transizione digitale e green, con il 37% delle risorse destinato alle misure per il clima.  Il Piano francese, a sua volta, è centrato su tre missioni: la transizione ecologica, la competitività con la digitalizzazione e la coesione basata su un programma per i giovani. L’allargamento degli obiettivi priva il Piano italiano di effettive priorità e rischia di renderne più complessa e più difficile l’attuazione.

Per la transizione ecologica, il Piano stanzia 69 Mld, dei quali però solo 36 sono per nuovi progetti. Circa 31 Mld sono, infatti, destinati a sostituire finanziamenti già stanziati per progetti già in essere e per arrivare al totale sono conteggiati anche altri finanziamenti europei già stanziati. Sarebbero disponibili quindi solo 6 Mld l’anno, in media, fino al 2026. Gli obiettivi sono numerosi: rendere la filiera agroalimentare sostenibile, implementare pienamente il paradigma dell’economia circolare, ridurre le emissioni di gas serra in linea con gli obiettivi EU 2030, incrementare la produzione di energia da fonti rinnovabili e sviluppare la rete di trasmissione, promuovere e sviluppare la filiera dell’idrogeno, sostenere la transizione verso mezzi di trasporto non inquinanti e le filiere produttive, migliorare le performance energetiche e antisismiche degli edifici, assicurare la gestione sostenibile della risorsa idrica, contrastare il dissesto idrogeologico e un programma di riforestazione e miglioramento della qualità delle acque interne e marine.

La carenza maggiore si riscontra nella ripartizione delle risorse per finanziare nuovi interventi. Gli investimenti per le nuove misure climatiche non solo non sono ingenti, come dichiarato, ma non sono neppure il 37%. Si sente la mancanza di un aggiornamento del PNIEC, il Piano nazionale integrato energia e clima, e quindi della individuazione delle misure necessarie per arrivare al 2030, ma ci sono solo 1,3 Mld l’anno in più per tutte le rinnovabili, per la filiera e le reti e poco altro per tutto il resto delle misure.  Meglio le misure per l’efficientamento energetico degli edifici sia pubblici sia privati. Largamente inadeguati gli stanziamenti per l’economia circolare.  Per la mobilità urbana sostenibile ci sono solo 760 Ml l’anno che dovrebbero servire per un numero elevato di misure (le ciclovie, la filiera dei veicoli elettrici e ibridi, il rinnovo della flotta autobus, di quella dei treni regionali e dei trasporti navali regionali e per il trasporto rapido di massa) con quasi nulla sul tema strategico della sharing mobility.

Chi si aspettava proposte innovative si trova di fronte a un documento desolante in particolare rispetto al sistema dei trasporti dove si rinuncia ad aggredire gli storici ritardi italiani. I cittadini del Mezzogiorno non vedranno cambiare quanto si attendevano una situazione di linee ancora a binario unico, non elettrificate, con pochissimi treni in circolazione. Si punta ancora sui grandi cantieri infrastrutturali con un elenco di ferrovie ad alta velocità, oltretutto in larga parte già finanziate, come la Brescia-Padova, la Milano-Genova, la Napoli-Bari.

Come sempre per le città il ruolo è marginale, con i titoli giusti – decarbonizzazione, rinnovo del parco circolante, riduzione del gap infrastrutturale – ma con risorse del tutto inadeguate. Il vero deficit è, inutile dirlo, sui mancati investimenti per le città ed il trasporto locale

Che fare quindi per rendere effettivamente prioritarie le nuove misure per il Green Deal, che non è solo richiesto dall’Europa, ma è importante per cogliere e valorizzare i potenziali molto elevati di sviluppo della green economy italiana? Ci sarebbero almeno tre possibilità: distribuire fra tutte le 6 missioni in modo più equo i 66 miliardi di finanziamento dei progetti in essere, lasciando così più risorse disponibili per nuovi progetti; ridurre la gamma degli interventi per concentrare maggiori risorse sulle priorità del Green Deal; usare una parte del prestito  del MES per coprire almeno una parte dei 18 miliardi previsti per la salute e liberare così parte delle risorse per altre destinazioni.

TORNA SU

  15 novembre 2020. Un nuovo capitalismo del bene comune

 

Apparsa agli onori della cronaca più larga per aver rifiutato la propria firma al cosiddetto Piano Colao per il rilancio dell'economia italiana, Mariana Mazzucato elabora una visione nuova, non rivoluzionaria, di un capitalismo mosso dall'interesse pubblico. Il fallimento totale del capitalismo globalizzato e finanziarizzato, prima nella crisi subprime del 2008  e oggi nella gravissima crisi globale del Covid -19, impone cambiamenti immediati e sostanziali degli assetti dell'economia mondiale e l'indirizzamento degli investimenti verso lo sviluppo sostenibile e la green economy, con al centro il recupero della salute, della qualità della crescita e la riparazione degli immensi danni apportati dal capitalismo alla società e al benessere. Con il Covid le imprese, che hanno accumulato denaro a non finire, bussano alla porta dei governi implorando miserabilmente risorse per la sopravvivenza e si preparano a nuovi cicli di accumulazione, tagli e licenziamenti. Tutto ciò è improponibile e solo un rinnovato ruolo degli Stati, in nome della salute e del benessere dei cittadini potrà riportare sulla scena una dimensione di un futuro possibile.

Il nostro invito è alla lettura della Mazzucato, in particolare del pamphlet "Non sprechiamo questa crisi" pubblicato da Laterza e diffuso da Repubblica, che, ricordiamo è ora un giornale di un gruppo imprenditoriale torinese, non noto per la sua inclinazione all'innovazione. L'autrice insegna economia a Londra dove ha fondato lo IIPP, Institute for Innovation and Public Purpose.

Oggi ci si presenta l'occasione di approfittare di questa crisi per capire come fare capitalismo in modo diverso. Occorre ripensare il ruolo dello Stato: i governi dovrebbero assumere un ruolo attivo per una crescita sostenibile ed inclusiva, per orientare la ricerca e lo sviluppo ad obiettivi di interesse pubblico  e per patrocinare partnership pubblico - private guidate dall'interesse pubblico. Quando le aziende si fanno avanti con richieste di salvataggio o assistenza si devono dettare condizioni affinché gli investimenti le portino verso la green economy, la decarbonizzazione in una chiave di inclusione sociale.

Il capitalismo che conosciamo è preda al contempo di una crisi sanitaria, economica e climatica. Ora che lo Stato è tornato a recitare un ruolo da protagonista, sarà esso stesso a fornire le soluzioni pensate in modo da servire l'interesse pubblico. Le aziende che ricevono risorse pubbliche dovranno essere obbligate a mantenere i posti di lavoro e garantire la formazione dei dipendenti ora nella crisi, poi nella transizione e il miglioramento delle condizioni occupazionali. gli interventi pubblici dovranno comportare degli obblighi, come quello di vincolare le imprese ad abbattere le emissioni serra, rinunciare alla delocalizzazione e minimizzare l'outsourcing.

Gli imprenditori sono inclini a socializzare i rischi ma non i guadagni. Nella crisi chiedono aiuti, ma quando l'economia prospera i vantaggi restano rigorosamente privati. Nella loro visione solo le imprese creano valore e lo Stato si deve limitare a facilitare questo processo. In realtà è il concetto stesso di valore che va ridefinito perché abbiamo confuso il valore con il prezzo di mercato e questo ha alimentato la diseguaglianza e distorto il ruolo del settore pubblico il quale invece, attraverso la produzione di beni pubblici (istruzione, sanità ...) e la sorveglianza dei beni comuni (cultura, paesaggio, ambiente ...), produce eccome valori che non hanno prezzo,  ben lontani dal mercato.

La ripresa post - Covid dovrà  essere green e smart. I mercati da soli non riusciranno a individuare percorsi di crescita sostenibili ed equi. Innovazione e regolamentazione dovranno muoversi in una direzione stabile e coerente. Il fatto di subordinare la concessione degli aiuti pubblici al rispetto di determinate condizioni contribuisce a canalizzare le risorse economiche in modo strategico, garantendo che vengano reinvestite in maniera produttiva piuttosto che essere catturate dalla speculazione. Se ben applicate le condizionalità possono allineare i comportamenti delle aziende ai bisogni della società, garantendo uno sviluppo sostenibile. Inoltre, per evitare conseguenze permanenti, l'approccio della Just transition, elaborato nell'ambito del cambiamento climatico, deve essere implementato in tutti i settori brown dell'economia per dare vita a posti di lavoro green e durevoli. Occorre ripristinare il paradigma keynesiano della piena occupazione, sotto tutti gli aspetti un bene comune,  sotto forma di un sistema di garanzie tale da far sì che il capitale umano non vada sprecato né si deteriori.

La sfida a lungo termine più importante che dobbiamo affrontare è il cambiamento climatico. Lo si può fare solo con un Green Deal di pari forza della trasformazione socioeconomica keynesiana del dopoguerra Di essa i principali attori, da Parigi in poi, sono gli Stati, non le imprese. Per questo abbiamo bisogno di piani e programmi per implementare una transizione green. Si rende necessaria una nuova era di investimenti pubblici per riorganizzare il nostro panorama tecnologico, produttivo e sociale.

Le cose da fare

  1. Indirizzare la produzione e la distribuzione di attrezzature richieste con urgenza;

  2. Governare il rischio e premiare la ricerca sul Covid -19;

  3. Salvataggi per le missioni pubbliche, occupazione, migliori condizioni di lavoro, condizioni smart e green, stato sociale e sistema sanitario.

Le cose da non fare

  1. Chiusure aziendali;

  2. Pratiche finanziarizzate

TORNA SU   

 

02 Agosto 2020. Toni Federico: Clima ed energia: le chiavi per uscire dalla crisi pandemica

Il Recovery Plan. Un Recovery Plan da 750 Mld€, finanziato con modalità di tipo federalistico, porterà all’Italia tra sovvenzioni e prestiti 209 Mld€, un terzo dei quali obbligatoriamente da investire nella lotta ai cambiamenti climatici. Per accedere a questi fondi ci viene chiesto di presentare entro il prossimo ottobre un Piano nazionale di riforme e di investimenti pubblici che definisca quella che sarà la transizione energetica ed industriale dell’Italia nei prossimi tre decenni. La proposta della Commissione prevede che l’utilizzo delle risorse del Recovery Fund sia finalizzato a investimenti in grado non solo di affrontare l’emergenza, ma di assicurare un futuro alle prossime generazioni. Può dare grande impulso all’occupazione, con attenzione ai processi di conversione industriale e di formazione dei lavoratori e dei giovani. Il Green Deal deve costituire l’elemento di condizionamento e di guida della ripresa, in nome del quale l’azione dei Governi europei e della finanza pubblica riprendono il ruolo di indirizzo dell’attività delle imprese abbandonato in nome del dettato neo-liberista, quello stesso che ha aggravato le diseguaglianze a livello mondiale, che ha scaricato sui lavoratori il peso delle sue utilità e che si dimostrato fallimentare proprio a fronte della pandemia. Il Green Deal non è una fuga in avanti ambientalista, ma un solido programma popolare condiviso dalla maggior parte dei Paesi membri.

Le prime misure da mettere in campo sono quelle per il raggiungimento di target più ambiziosi al 2030, -55% ed oltre di riduzione delle emissioni GHG, che richiedono notevoli investimenti nella transizione energetica, nell’efficienza e nel risparmio energetico, nello sviluppo delle rinnovabili, nella elettrificazione della mobilità di passeggeri e merci e nelle tecnologie per l’idrogeno green e per la cattura e il sequestro del carbonio. Il cambiamento verso un modello circolare di economia, promosso anche dalle nuove direttive europee nella necessaria funzione di accompagnamento della lotta ai cambiamenti climatici e all’inquinamento, richiede investimenti nei processi e nei prodotti industriali, per prolungarne la durata, migliorarne la riparabilità e le possibilità di riuso, per renderli più facilmente riciclabili e per aumentare l’impiego di materie prime seconde.

Accanto alle fonti di energia rinnovabile, l’altra grande dimensione della transizione energetica è l’efficienza, che non è solo risparmio, ma soprattutto innovazione tecnologica e gestione del territorio. L’efficienza dovrà essere interpretata a livello locale, nelle città, investendo in progetti di nuova rigenerazione urbana che comprenda non solo i tradizionali interventi di recupero di edifici e di aree dismesse, ma misure di mitigazione e adattamento climatico e un potenziamento delle infrastrutture verdi.

Non ultima per importanza va ridefinita la strategia agroalimentare europea secondo il modello Farm to Fork, per garantire la sostenibilità della produzione e la sicurezza dell’approvvigionamento alimentare, per promuovere un consumo alimentare sostenibile e ridurre le perdite e gli sprechi ma anche per assecondare il processo generale di transizione e l’uso del territorio nella chiave climatica.

L’impegno di risorse necessarie per il Green Deal è stato calcolato, nel documento di lavoro che accompagna la Comunicazione della Commissione europea del 27 maggio, in 470 Mld€, così suddivisi: 30 per le rinnovabili, 190 per l’efficienza energetica, 120 per la mobilità sostenibile, 77 per altre misure per il clima e l’ambiente e 53 per l’economia circolare e la gestione delle risorse. È fuori strada pertanto chi pensa all’apertura di una sorta di bancomat dove ciascun Paese possa prelevare soldi, solo con limiti quantitativi, per spenderli come vuole, senza tener conto degli indirizzi e delle priorità indicate a livello europeo.

Il 30% destinato al Green Deal. L’azione per il clima - si dice nel testo delle conclusioni del Consiglio del 21 luglio - sarà integrato nelle politiche e nei programmi finanziati nell’ambito del QFP e di Next Generation EU per il 30% dell’importo totale della spesa, pari per l’Italia a 62,7 Mld€. La condizione è che gli obiettivi devono conformarsi entro il 2050 alla neutralità climatica e ai nuovi milestone climatici dell’Unione per il 2030, che verranno aggiornati entro fine 2020. Un monitoraggio della spesa per il clima e della sua efficienza, incluse la rendicontazione e misure pertinenti in caso di progressi insufficienti, dovrebbe garantire che il prossimo QFP nel suo complesso contribuisca all’attuazione dell’accordo di Parigi. La Commissione riferirà annualmente in merito alle spese per il clima.

Per rispettare queste condizionalità è opportuna l’applicazione al Recovery Plan della Tassonomia europea per gli investimenti sostenibili e green, stabilendo più chiaramente che si può finanziare una serie di progetti che hanno effetti positivi per una serie di obiettivi climatici e ambientali e che comunque non li devono in ogni caso danneggiare. La misura è formulata in modo generico e potrebbe essere facilmente aggirabile dai Piani nazionali.

L’altro pilastro del Green Deal, è l’economia circolare che invece è molto indebolita nelle indicazioni europee del Recovery Plan. Senza economia circolare non vi può essere né economia climaticamente neutra, né Green Deal: da qualche parte questa indicazione per i Piani nazionali dovrebbe essere ben più chiara. Nel conclusioni del Consiglio si trovano diversi riferimenti all’agricoltura e alla PAC, ma non al Green Deal e alla transizione alla neutralità ben declinati dalla recente strategia europea Farm to Fork tanto che anche l’indicazione del 40% dei fondi per l’agricoltura a misure climatiche risulta indebolita.

Si consulti il bel Rapporto di Luigi di Marco sulle iniziative europee pre e post pandemia, Green Deal e New Generation EU.

Il 2019 e la pandemia. Secondo le indicazioni di Italy4climate la pandemia ci riserva una prospettiva di sostanziale incertezza. Non possiamo anzitutto nascondere la situazione come si presentava a fine 2019: si chiude il decennio più caldo mai registrato in Italia, con 13,4 °C di temperatura superficiale media; tra il 2008 al 2019 cresce di 10 volte il numero di eventi estremi in Italia, fino a 1600; le emissioni! di gas serra non diminuiscono sensibilmente da sei anni, stazioniamo sopra i 420 MtCO2eq; l'efficienza energetica dell'economia da diversi anni non migliora più e permane intorno a 93 tep/M€; in sei anni in Italia le rinnovabili elettriche crescono meno che nel resto d'Europa (+3%) anche se erogate a prezzi inferiori, mediamente meno di 5 €cent/kWh. Cala a 20 TWh la produzione elettrica da carbone, così consentendo la discesa dell’impronta carbonica dell’energia elettrica a 289 gCO2/kWh, mentre ne viene confermato il phase-out entro il 2025; le emissioni dei trasporti, pur con meno auto diesel vendute, salgono in media a 119 gCO2/km. Gli effetti sensibili della pandemia ci stanno dicendo che solo nei mesi di marzo e aprile 2020 abbiamo ridotto le emissioni di oltre 20 MtCO2 rispetto all’anno precedente. Nella fase di piena operatività delle misure di restrizione, la riduzione delle emissioni è stata intorno al 35% che, al di là delle apparenze, è in realtà molto vicina a quello che dovrebbe essere il taglio da raggiungere in appena un decennio per centrare gli obiettivi di Parigi e non far precipitare la crisi climatica. Questo ci mostra in maniera molto chiara la dimensione dello sforzo che dovremmo fare nei prossimi anni e anche la distanza dall’obiettivo di contenimento del cambiamento climatico.

Per altro verso, dopo la flessione record registrata ad Aprile in pieno lockdown, il bollettino di Terna per il mese di maggio evidenzia una decisa ripresa dei consumi elettrici (+10%) rispetto al mese precedente, per un totale di 22,7 TWh di elettricità consumata, di cui il 94,4%  è stata soddisfatta con produzione nazionale. Il maggio appena trascorso rispetto allo stesso mese del 2019 ha fatto segnare un -10%. In questo contesto spicca però un importante record positivo: il 51% della domanda nazionale di elettricità è stato coperto da fonti rinnovabili, il valore mensile più alto di sempre. Nello stesso periodo del 2019, la domanda di energia elettrica coperta da FER è stata del 41%. A maggio la produzione di elettricità da fonti rinnovabili è cresciuta dell’12% rispetto allo stesso mese del 2019 e la produzione fotovoltaica, pari a 2,9 TWh, ha superato del 25% il maggio 2019. Quella eolica, pari a 1,8 TWh vale un +6,3%.

Le nostre proposte per la ripresa. Poiché è previsione facile e condivisa che l’atteso rimbalzo del PIL post-Covid si trascinerebbe dietro tutte le variabili energetiche, è evidente la necessità di giocare d’anticipo e quindi la priorità da riservare al rilancio delle fonti rinnovabili e dell’elettrificazione nell’impiego dei primi investimenti che vanno fatti con i fondi europei. Non certo nuove autostrade e nuova cementificazione, ma molte più rinnovabili elettriche, un forte impulso all’autoproduzione elettrica, all’elettrificazione dei trasporti, e finalmente la realizzazione della smart grid elettrica dotata di intelligenza e capacità di stoccaggio. Quest’ultima, e non certo la rete 5G, è la vera innovazione telematica per portare energia rinnovabile a tutti. Certamente portare Internet a tutti è parte integrante del rilancio, ma conta di più l’estensione territoriale e l’alfabetizzazione informatica generalizzata che non l’alta velocità telefonica e il relativo abuso delle piattaforme social con cui le compagnie telefoniche fanno soldi solo nei centri urbanizzati più densi e più ricchi.

Non basta tuttavia promuovere il solo consumo delle rinnovabili, occorre spostare il sistema industriale dall’attuale attitudine soporifera e misoneista verso le produzioni green che possono garantire un gran numero di nuovi posti di lavoro e il recupero di una competitività sui mercati sempre più compromessa. Tra queste va favorita l’introduzione dell’idrogeno green come vettore energetico rinnovabile, prodotto mediante l’energia solare e l’elettrolisi dell’acqua.

Parliamo anche di elettrificazione rinnovabile dei trasporti pubblici e privati puntando sulla mobilità dolce, rilanciata a livello mondiale dalla pandemia, sull’idrogeno verde, sulle celle a combustibile per il trasporto pesante e sulle facility pubbliche e domestiche per la ricarica delle batterie, accompagnate da un programma di costruzione di stazioni di ricarica di potenza in tutte le stazioni di servizio e on demand. Sicuramente l’Europa provvederà alla standardizzazione dell’hardware per la ricarica. Occorre una ulteriore promozione della ferrovia, passeggeri e merci, con la introduzione dell’obbligo dei veicoli elettrici per la logistica merci dell’ultimo km. Agli scettici ricordiamo che sono Amazon e company ad aver ormai sviluppato tutta l’intelligenza artificiale che serve per consegnare le merci. Inutile stare a guardare. Per i trasporti extraurbani niente asfalto o cementificazione aggiuntivi ma manutenzione del capitale infrastrutturale costruito. Lungo questo percorso non si comprende l’incentivazione dei mezzi benzina e diesel Euro 6 introdotta dal Governo nel Decreto rilancio né l'attenuazione delle garanzie ambientali dei appalti adombrate nelle proposte di semplificazione.

Investimenti vanno ad un ulteriore sviluppo dell’efficienza energetica, nella quale l'Italia è meno in ritardo. Si tratta di riduzione e controllo dei consumi, ma anche di innovazione tecnologica. Va riqualificato il patrimonio edilizio con investimenti e incentivi per l’edilizia a consumi ed emissioni zero, apportatori di buona e nuova occupazione. Il riscaldamento e il raffreddamento devono al più presto abbandonare il gas naturale in favore delle pompe di calore, dispositivi elettrici reversibili dal caldo al freddo, riqualificando la progettazione degli edifici. Tra le lezioni della pandemia emerge con forza, nel panorama dell’efficienza, la pratica dello smart working, che sta dando prove straordinarie in fatto di economie di sistema, risparmio energetico, mitigazione della mobilità delle persone, connettività sociale e innovazione tecnologica.

Riscrivere il PNIEC italiano. C’è n’è più che abbastanza per riscrivere l’obsoleto PNIEC italiano, con un rapido adeguamento delle misure e degli impegni alla roadmap 2050 della decarbonizzazione europea del Green Deal e un percorso pianificato per ridurre le emissioni GHG almeno del 55% al 2030. Ricordiamo che i PNIEC sono documenti ufficiali dell’Unione che possono fortemente condizionare l’erogazione dei fondi. La flebile Legge sul clima italiana va riscritta, rimessa al passo con la legge europea e dotata di strumenti attuativi e finanziari all’altezza degli obiettivi. La Commissione Europea ha preparato in marzo per il Parlamento e il Consiglio una Climate Law che propone il target della decarbonizzazione al 2050 come obbligatorio (legally binding) per tutti i paesi membri e nuovi obiettivi per il 2030. Ribadiamo che per stare sul percorso di Parigi è richiesta la conferma del phase out totale del carbone al 2025 con la riduzione del ricorso al gas naturale per energia, riscaldamento e trasporti in favore dell’uso del biometano e dell’idrogeno green. Con le dovute cautele l’Italia deve associarsi ai progetti per la CCS e BECCS a scala europea ed internazionale evitando le fughe in avanti come il Progetto Ravenna dell’ENI. Va promossa la ricerca scientifica sul DAC e sui gravi rischi della geoingegnerizzazione del clima.

Preso atto dell’aumentato sforzo delle Amministrazioni pubbliche per fare fronte al dissesto idrogeologico e al grave degrado delle infrastrutture e del patrimonio architettonico, va prontamente strutturato e dotato di risorse il Piano di adattamento ai cambiamenti climatici, a partire dalla Strategia esistente ma in una chiave rafforzata dagli orientamenti del Green Deal. Sull’onda dei recenti disastri di Genova, Venezia, Palermo e di altri ancora si dimostra una sinergia sistemica tra queste tematiche e quelle della protezione della salute, che hanno in comune i fattori organizzativi, le finalità ed anche le origini nelle quali si riconoscono gli effetti della violazione degli assetti naturali e degli habitat degli organismi viventi.

Fiscalità ed incentivi dannosi. Una sempre rinviata riforma fiscale ecologica è chiamata ad adeguare le accise sui carburanti, a parità di gettito, in funzione del contenuto in carbonio dei combustibili. Una meditata riflessione deve portare l’Italia all’adozione progressiva di una Carbon Tax generalizzata e alla adozione della Border Tax del Green Deal europeo, equilibrando un prezzo unitario per le emissioni di carbonio tra i settori ETS a controllo europeo e gli altri settori, in particolare civile e trasporti. Dopo interminabili esitazioni va normato con target e scadenze il percorso per la eliminazione degli incentivi ambientalmente dannosi a partire dai combustibili per aviazione civile, autotrasporto, agricoltura e pesca. Si tratta qui non solo e non tanto di offrire compensazioni economiche ai settori colpiti, quanto di offrire alternative sistemiche e dispositivi alternativi, tecnologicamente basati sulle fonti rinnovabili, in particolare sull’idrogeno green.

Si attende un nuovo protagonismo dell’Italia nei rapporti multilaterali, dove clima energia e salute sono la nota dominante. Ci riferiamo al G7 al G20 di Roma del 2021 ma soprattutto alla COP 26, vera occasione mancata dall’Italia che avrebbe dovuto esserne Presidente e protagonista e che ora si trova nel ruolo di comprimaria con il Regno Unito, appena uscito dall’Unione. Nonostante le enormi difficoltà finanziarie del nostro Paese non si vede come ci si possa esimere dall’invocare che l’Italia, partner della Coalizione dei Paesi ambiziosi, onori i propri impegni per il finanziamento del Green Climate Fund, quest’anno alla scadenza dell’obiettivo dei 100 GUS$/anno, ma lontanissimo da questo target.

TORNA SU

 

Ottobre 2019: La tutela dell'ambiente nelle costituzioni degli stati membri dell'Unione Europea

 

è del massimo interesse il Dossier (Nota breve 18/140) pubblicato dall'ufficio studi del Senato sulla introduzione nelle Costituzioni dei paesi memb4ri di riferimenti all'ambiente e allo sviluppo sostenibile. Il testo delle Costituzioni degli Stati europei sorte nell'immediato secondo dopoguerra non palesa, in generale, una particolare attenzione verso la tutela dell'ambiente. Non così il testo di Costituzioni più recenti (come la spagnola del 1978), invece dotate di specifiche disposizioni. È però accaduto che in sede di revisione costituzionale disposizioni sull'ambiente siano state inserite in corso di tempo entro una Carta costituzionale o legge fondamentale più risalente (come nei Paesi Bassi nel 1983, in Germania nel 1994 e, con particolare ampiezza, in Francia nel 2005). Il Dossier non riporta i dati per l'Italia nè riferisce delle proposte di inserimento dello sviluppo sostenibile nella Costituzione italiana, proposte avanzate da diversi partiti politici e di recente raccolte anche dal Governo.

TORNA SU

 Febbraio 2019. I misteri che non sono misteri: la blockchain

"Le decisioni della finanza internazionale vengono sempre più spesso prese mediante l'intelligenza artificiale. Ma essa non è per ora in grado di interiorizzarei principi dello sviluppo sostenibile" Francesco Starace, AD ENEL, 27 febbraio

Molto spesso gli artifizi dell’informatica creano un alone di mistero intorno a sé e con esso coorti di adoratori più o meno disinteressati. Fu il caso della new economy, dell’intelligenza artificiale ed ora della blockchain. Crediamo opportuno dissolvere queste come altre cortine di incomprensione verso le nuove tecnologie. Per questo l’appunto che segue può essere d’aiuto. Ovviamente maneggiare queste tecnologie è un’altra storia, ma tra maneggiare ed essere maneggiati c’è una bella differenza.

La blockchain è una delle più celebrate tecnologie del momento. Ma cos'è? La prima grande applicazione della tecnologia blockchain è il bitcoin, una delle monete digitali in criptovaluta, creata nel 2009. Il bitcoin viene attribuito a Satoshi Nakamoto che non si sa chi sia né se è una persona o un gruppo. La sua visione si trova nel libro bianco di fine 2008, Bitcoin: A Peer-to-Peer Electronic Cash System. Utilizzeremo il bitcoin per raccontare la tecnologia blockchain.

La blockchain è un database crittografato e non modificabile né dagli utenti né da eventuali intromissioni che nel bitcoin è sostanzialmente un libro mastro pubblico che ritiene una traccia indelebile ogni transazione che ha avuto luogo. Non può essere alterato o modificato in modo retrospettivo. Pubblico lo si definisce perché non è emesso da un'autorità centrale né da un soggetto privato o da un cartello. Nel bitcoin è stato fissato un limite di 21MɃ, e, a metà 2018 sono in circolazione circa 17 MɃ. Il Ƀ è stato spesso utilizzato per acquistare prodotti illeciti, droghe, armi, etc. La blockchain di Ƀ è gestita da una rete di persone note come miners, nodi della rete web che risolvono in competizione i complessi problemi di crittografia per accreditare una transazione Il vincitore riceve un premio in Ƀ. Ogni transazione Ƀ proviene da un portafoglio che ha una chiave privata di accesso, cioè una firma digitale, e deve essere accompagnata da una prova matematica che la transazione proviene dal proprietario del portafoglio. Le singole transazioni sono raggruppate in un blocco, costruito con rigide regole crittografiche. Il blocco viene inviato alla rete bitcoin, che convalida le transazioni attraverso complessi algoritmi matematici. Il blocco validato viene aggiunto ai blocchi precedenti creando una catena di blocchi da cui il nome blockchain.

Lo schema Ƀ originale di Nakamoto è il seguente. Non provate nemmeno ad interpretarlo, vi scoraggerebbe.

La blockchain è a prova di manomissione. Ogni blocco che viene aggiunto alla catena porta un riferimento rigido e crittografico al blocco precedente che è parte del problema matematico che deve essere risolto per portare il nuovo blocco nella catena. Gli algoritmi elaborano un numero casuale, il nonce, che, combinato con altri dati come la dimensione della transazione, crea un'impronta digitale crittografata chiamata hash. Ogni hash è unico e deve soddisfare determinate condizioni crittografiche per completare il blocco e aggiungerlo alla catena. Se lo si volesse manomettere occorrerebbe riestrarre gli algoritmi crittografici di ogni blocco precedente. Nel bitcoin ce ne sono mezzo milione e quindi la decrittazione è di fatto impossibile.

Ora è chiaro che si tratta di un database bloccato di eventi qualsiasi. Il meccanismo di blocco richiede risorse enormi di lavoro, conoscenze, capacità, soldi ed energia, ma alla fine pare aver convinto molti della sua efficacia.

La blockchain di Ƀ registra tutte le transazioni in bitcoin, non consente pagamenti ripetuti e richiede a più parti di autenticare i movimenti in Ƀ. Poiché non è centralizzata, anche se una parte di essa è compromessa, non collassa l'intera rete, come già avviene per Internet. I database ​​di proprietà di entità aziendali e governative non sono viceversa accessibili al pubblico e sono di fatto aperti a frodi o attacchi che possono paralizzare la rete o saccheggiare i dati.

I problemi non mancano. Nel bitcoin i tempi e i costi delle transazioni sono aumentati a dismisura e la rete è congestionata. Divergenze di vedute tra gli utilizzatori hanno portato a biforcazioni della blockchain. Sono nate la Cash bitcoin e la Gold bitcoin. Niente di male ma il numero di nodi diminuisce e in teoria, se un nodo controlla più della metà del potere di estrazione di una criptovaluta, potrebbe potenzialmente falsificare il registro della blockchain, come è successo con la variante Gold. C’è materiale illecito seppellito nella blockchain Ƀ in cui si sono trovati contenuti come la pornografia infantile, crittografati allo stesso modo e quindi molto difficili da trovare. Per i costi di energia e lavoro Wall Street stima che il prezzo minimo remunerativo è di 8 $ per Ƀ, ma se Ƀ rimane al di sotto per un lungo periodo di tempo, molti miner potrebbero allontanarsi, causando un ulteriore aumento dei tempi di transazione.

Questo tipo di volatilità non è chiaramente adatto per le imprese. Pertanto, molte aziende hanno iniziato a sviluppare in proprio la tecnologia blockchain al fine di avere un registro delle attività condiviso, rendere le transazioni più efficienti, un numero ridotto di parti intermedie coinvolte e minori costi di elaborazione.

Un certo numero di sviluppatori ha creato piattaforme blockchain per le aziende interessate. Tra esse le piattaforme Ethereum, specializzata in contratti smart con una propria criptovaluta, Ripple, che produce xCurrent e gestisce la criptomoneta XRP per le transazioni valutarie internazionali, poi ancora Hyperledger, IBM, R3 etc.

Sono note due applicazioni bancarie importanti, segnalate da CNBC, la Santander e la BBVA.

La Santander ha lanciato un servizio noto come One Pay FX che funziona sulla piattaforma Ripple. Consente ai clienti di inviare denaro da una valuta all'altra in un certo numero di paesi, tra cui la Spagna, il Regno Unito, il Brasile e la Polonia. I clienti possono vedere quanti soldi arriveranno e il costo della transazione nella loro app.

La BBVA ha realizzato un progetto pilota nel quale ha emesso un prestito di 75 M€ utilizzando la blockchain in partnership con una società chiamata Indra costruendo un proprio sistema che usa moneta corrente sulla piattaforma Ethereum. BBVA stima un risparmio di tempo del 50% quando si emette un prestito sulla blockchain rispetto al processo tradizionale.

Come si diffonderà la blockchain? Qualsiasi soggetto che spera di rendere i processi più economici, veloci, tracciabili e sicuri può essere interessato. Il gruppo di borsa Nasdaq ha collaborato con la banca svedese SEB per provare una piattaforma di negoziazione di fondi comuni basata su blockchain. La tecnologia può anche essere utilizzata per tracciare i prodotti lungo l’intera catena del valore di una corporate. Le elezioni sono un altro spazio a cui potrebbe essere applicata la tecnologia blockchain. Nelle elezioni primarie della West Virginia a maggio 2018, alcuni elettori hanno potuto votare tramite una piattaforma mobile basata su blockchain.

Per informazione del lettore, la piattaforma italiana Rousseau dell’azienda milanese Casaleggio associati, dimostratasi manipolabile e vulnerabile, non usa la blockchain ma vorrebbe farlo e sta a tale scopo raccogliendo fondi importanti tra i militanti 5*.

TORNA SU

        

Comitato Scientifico della

Fondazione per lo Sviluppo sostenibile

 

Via Garigliano 61a

 00198 Roma

Tel.: +39 06 8414815

info@susdef.it

 

www.fondazione

svilupposostenibile.org

Coordinatore: Toni Federico (email:federico@susdef.it)

  Storia e tendenze dello sviluppo sostenibile           La Green economy          Clima          Energia       Trasporti