Aggiornamento 03-set-2018

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Beyond GDP

Fatti, eventi, documenti

Materiali

2014, 16 gennaio: Robert Costanza e Enrico Giovannini su Nature (505) "Time to leave GDP behind"



2013, 13 dicembre: Venezia. Convegno "Oltre il Pil: Misurare il benessere su scala regionale e locale"

 

2012, 24 febbraio: Museum of Natural History. "Natural capital beyond GDP. How can we measure progress"

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2011: Joseph Stiglitz. "Beyond GDP"

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2010: OECD "Better life initiative"

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2010: Wuppertal Institute. "Towards Sustainable development. Alternative to GDP for measuring progress"

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2007, 19 novembre: EU Conferenza "Beyond GDP"

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2007: Università di Amsterdam "Sustainable quality of life"

 

2004: World Bank

"Beyond the economic growth"

GOING BEYOND GDP TO SDG

verso gli indicatori di sviluppo sostenibile

 

Il PIL è morto, viva il PIL (libera restituzione da Nature - R. Costanza, E. Giovannini)

È inevitabile iniziare una pagina come questa con la stranota citazione di Robert Kennedy secondo cui il prodotto interno lordo di un paese  misura  tutto eccetto ciò per cui vale la pena di vivere. L’indicatore fu sviluppato tra la grande depressione del 1929 e la II guerra mondiale ad opera di Simon Kuznets, che pure mise in guardia contro la confusione tra crescita e benessere.

1944: Bretton Woods adotta il PIL

Il PIL misura principalmente le operazioni di mercato. Ignora i costi sociali e ambientali. Infine è un valore medio e quindi, paese per paese, ignora le disuguaglianze di reddito, per non parlare di altre gravi forme di iniquità, diritti etc. è più grande per i paesi grandi e quindi, usato per stabilire delle gerarchie, come avviene per i G8, G20 etc., affiderebbe il mondo ai più grandi, non ai migliori. Nel linguaggio delle imprese il PIL si chiama fatturato. Usato per indirizzare le scelte aziendali può essere d’aiuto per  massimizzare i ricavi lordi ignorando la qualità e la sicurezza degli impieghi, la redditività, l’efficienza, l’innovazione, l’occupabilità, la sostenibilità ed altre preziose qualità che possono determinare il futuro aziendale. La Enron, poco prima della fine, aveva ottimi fatturati. Eppure, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, accrescere il PIL è la principale politica di quasi tutti i paesi.

È già molto tempo che sappiamo come render conto di tutti gli aspetti che il PIL ignora. Anche la dimensione psicologica del benessere umano può ora essere conosciuta in modo completo ed esauriente. Una pletora di studi e ricerche ha prodotto misure alternative di benessere e di progresso. Secondo Costanza e Giovannini la possibilità di detronizzare il PIL è ora in vista. Entro il 2015, l’ONU dovrà aver sviluppato, su una base largamente consensuale, gli SDG, gli obiettivi universali per lo sviluppo sostenibile.

 Relazione tra l'obiettivo generale di un benessere sostenibile e gli elementi soggettivi e oggettivi che contribuiscono ad esso. In nero gli elementi attualmente parzialmente compresi nel PIL (Fonte: www.asap4all.org)

Sviluppare con gli SDG una nuova metrica integrata del progresso e del benessere offre l’opportunità di definire prima, ed attuare poi, ciò che significa un benessere sostenibile, come misurarlo e come metterlo in pratica. Perdere questa opportunità significherebbe  lasciare  crescere le disuguaglianze sociali e la distruzione del capitale naturale dal quale dipende tutta la vita sul pianeta.

Quando il PIL è stato istituito sette decenni fa, poteva essere un marker del progresso: un aumento dell'attività economica veniva accreditato come portatore di occupazione, reddito, servizi, pace sociale e rifiuto della guerra. Ma il mondo è profondamente cambiato tanto che la crescita nei paesi sviluppati sta alimentando l'instabilità, il degrado ambientale e i conflitti sociali. Nei paesi poveri il modello di Bretton Woods acceca le alternative più sostenibili.

John Stuart Mill,  più di 200 anni fa , raccomandava che una volta raggiunto un tenore di vita dignitoso gli sforzi umani fossero diretti al perseguimento del progresso sociale e morale e alla qualità della vita piuttosto che alla competizione per la ricchezza materiale. John Kenneth Galbraith ebbe ad osservare una volta: "Arredare una camera vuota è una cosa. affollarla di mobili fino al crollo del pavimento è pura follia".

Sulla carta i limiti del PIL sono ormai chiari a tutti. Né il PIL  né il PIL procapite danno conto dell'equità distributiva, né del rapporto tra consumi ed investimenti, cruciale per la sostenibilità (> vedi Stiglitz), né ancora del reddito disponibile. Le misure alternative del progresso sono molte. I PIL verdi correggono il PIL con aggregati monetari che danno conto della spesa ambientale, sociale o della quota degli investimenti o della distribuzione del reddito. Lo fanno il GPI, l'ISEW, l'ANS e molti altri. Tutti mettono in evidenza l'arresto delle dinamiche del progresso al di sopra di certi livelli della crescita del PIL, addirittura poche migliaia di US$ procapite su scala mondiale come si vede in figura. A livello nazionale le soglie di innesco del fenomeno (noto come paradosso di Easterlin) crescono per paesi più ricchi.


Le misure soggettive di benessere sono un'alternativa netta. La base statistica di queste valutazioni sta nell'ottimo World Values Survey (WVS), un database sviluppato con appropriate indagini a partire dal 1981, che copre circa 70 paesi e questioni come se le persone sono soddisfatti delle loro vite. Il più che popolare GNH, indice di felicità nazionale lordo utilizza sondaggi che chiedono come le persone si sentono felici in nove settori: benessere psicologico, tenore di vita, la governance, la salute, l'istruzione, la vitalità comunitaria, la diversità culturale, l'uso del tempo e la biodiversità.

 


 

La sostituibilità delle misure di benessere soggettivo al PIL è resa difficile dalla impossibilità del confronto tra diverse società e culture e dai limiti della stessa soggettività: ad esempio dei criteri di autovalutazione dello stato di salute, della consapevolezza personale dei fattori del benessere e dallo scarso impatto soggettivo dei grandi fattori della crisi ambientale o dell'importanza dei servizi ecosistemici.  E le persone non sono sempre consapevoli dei fattori che contribuiscono al loro benessere.

Tutto sommato sembrano in vantaggio gli indici compositi, ricavati per integrazione di  diversi indicatori, il cui capostipite è l'HDI, l'Indice dello sviluppo umano di Amartya Sen. Alcuni di essi combinano dati soggettivi ed oggettivi. è il caso dell'Happy Planet Index, ottenuto moltiplicando l'indice di soddisfazione per la speranza di vita e dividendo per una misura di impatto ambientale ed anche del  Better Life Index dell'OECD. In Italia sono ottimi esempi l'Indice ISSI del CNEL e il BES dell'ISTAT (> vai alla pagina che li descrive).

Nella realtà delle cose il movimento Beyond the GDP non sembra per ora in grado di cogliere i suoi frutti. Vi è ampio consenso che si debba lottare per un alta qualità della vita, equa e sostenibile, come anche afferma il manifesto di Rio+20, "The Future we want", ma il PIL non cede il passo. Ci sono chiari interessi che sono in parte responsabili, tuttavia gran parte del problema è nessuna misura alternativa appare per ora convincente.

C'è fiducia nel processo dell'Agenda 2015 dell'ONU che, in continuità con gli obiettivi del millennio dovrebbe consegnare all'umanità entro il 2015 una lista di obiettivi universali per lo sviluppo sostenibile (> vai alla pagina che documenta questo processo).  Non si può fare a meno di notare che oggi le persone possono comunicare in tutto il mondo con una facilità impensabile ai tempi di Bretton Woods. Qualsiasi processo dall'alto deve perciò essere completata con  la partecipazione della società civile che comprende città e governi regionali, delle organizzazioni non governative, delle imprese e degli altri stakeholder. Il successore del PIL dovrei essere un nuovo insieme di metriche che integra le attuali conoscenze sull'ecologia, l'economia, la psicologia e la sociologia, per contribuire collettivamente a (ri)stabilire e misurare un benessere sostenibile, ma soprattutto le nuove metriche devono poter trovare un ampio sostegno che per ora manca.

Una lista di indicatori potenzialmente alternativi al PIL (fonte: Nature - 505)

 

 

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La distribuzione della ricchezza nei Paesi capitalisti avanzati: Non sarà la crisi a creare l’uguaglianza (Fonte McKinsey e OECD)

 

Nell’area euro in difficoltà la recessione ha inceppato il meccanismo e  adesso i più poveri sono ancora più poveri. Il grafico racconta che negli anni precedenti la grande crisi la maggior parte dei Paesi capitalisti ha visto allargarsi la forbice tra i ricchi e i poveri. Dando un’occhiata al grafico sembrerebbe che i Paesi europei più in crisi, i Pigs, Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna, siano quelli in cui, dalla metà degli anni Ottanta alla fine del primo decennio del 2000, i redditi dei poveri sono cresciuti più dei redditi dei ricchi: ragion per cui, per non finire in crisi andrebbero affamati i poveri.

In realtà, il grafico — pubblicato nel 2012 dalla rivista trimestrale della McKinsey su dati Ocse — porta a conclusioni diverse. Nei Paesi con i pallini rossi dalla metà degli anni Ottanta alla fine del decennio scorso, il reddito del 10% più ricco delle famiglie è cresciuto più di quello del 10% delle famiglie più povere; e in quelli con i pallini blu il reddito del 10% delle famiglie più povere è aumentato più di quello del 10% delle famiglie più ricche.

Si nota come in 15 anni la distribuzione del reddito in quasi tutti i Paesi a capitalismo avanzato sia stata a favore dei più ricchi. Non solo negli Stati Uniti e nel Regno Unito, di solito considerati meno propensi a forme di egualitarismo. Anche, e in modo considerevole, in Paesi dal Welfare State estremo come la Norvegia, la Finlandia e la Svezia (nel caso svedese addirittura il 10% più ricco si è arricchito di quasi il 2,5% l’anno, mentre il decile più povero di nemmeno lo 0,5%). Poi si nota che la performance in assoluto peggiore è quella del Giappone per cui il grafico cattura i due «decenni perduti» del e indica una sostanziale stagnazione anche in fatto di redditi e uguaglianza: dice che i più poveri sono rimasti tali ma anche che i più ricchi non si sono arricchiti granché (lo 0,25% l’anno).Subito dopo il Giappone, il Paese a maggiore tasso di stagnazione è l’Italia, e in effetti anche per il nostro Paese c’è chi parla di "decennio perduto", quello trascorso e di rischio simile per il prossimo.

Nella Penisola, il 10% dei più ricchi ha accresciuto il reddito di poco più dell’1% all’anno, mentre i poveri dello 0,2%. Francia e Belgio si collocano in una posizione moderata, nel senso che le variazioni non sono straordinarie e sono abbastanza bilanciate tra ricchi e poveri. Poi ci sono i quattro Pigs da capire. Irlanda e Spagna hanno vissuto buona parte dei 15 anni presi in considerazione in una bolla, soprattutto immobiliare, che ha fatto lievitare i redditi di tutti: dei più poveri di quasi il 4% e dei più ricchi del 2,5% (ma è chiaro che l’1% di aumento dei più ricchi è, in cifra assoluta, molto più dell’1% dei più poveri). Anche Grecia e Portogallo hanno vissuto per anni in una bolla di credito troppo facile rispetto ai fondamentali delle due economie. Da qui, probabilmente, il risultato statistico.  Se per i quattro Paesi in crisi si considerasse cosa è successo negli scorsi tre anni (i dati del grafico si fermano al 2009) si noterebbe il crollo della crescita dei redditi e probabilmente anche un peggioramento dèi benessere del 10% più povero delle famiglie, il più colpito dagli effetti della crisi.

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Comitato Scientifico della

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