Aggiornamento 11-Oct-2015

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     SOCIOLOGIA DELL'AUTO 

Dal  modello “tutto auto” verso un sistema di mobilità sostenibile. I difficili numeri di una necessaria riconversione dell’industria e dei servizi di Anna Donati

 (> leggi l'intero articolo)

Il calo della vendita di automobili  nel mondo occidentale non è contingente ma  la crisi di un sistema maturo, che dopo un grande successo,  con 35 milioni di veicoli in circolazione solo in Italia ed il 65,5% di cittadini che la usa ogni giorno,  mostra i suoli limiti.  Limiti della crescita innanzitutto soprattutto in ambito urbano ormai denso di auto accatastate;  e limiti alla mobilità che non è più garantita dall’auto nello spazio e nel tempo, con i limiti antismog,  le Zone a Traffico Limitato telematiche, il pagamento  della sosta, con l’ecopass e  le corsie riservate ai mezzi pubblici.  Una storia recente  in cui l’automobile piano piano è stata costretta a ritirarsi. Magari conquistando altri spazi nelle megaperiferie  derivate dallo sprawl urbano fatto di residenze, capannoni, centri commerciali  e  cinema multisala.  Ma la crescita è ormai lontana e la necessità di puntare sulla mobilità sostenibile richiede  idee e progetti per la riconversione del sistema produttivo dell’automobile  e del sistema di trasporti basato sul tutto strada. 

La conversione deve avvenire secondo un progetto industriale coerente che incida sui veicoli,  sui servizi di trasporto  e sulle reti infrastrutturali, in cui le istituzioni pubbliche ed il Governo abbiano un ruolo di orientamento decisivo  secondo quattro linee guida:

a)                   il graduale ridimensionamento del sistema produttivo attuale (già in corso di fatto) e la sua conversione verso veicoli dedicati al trasporto collettivo,  ai sistemi innovativi di mobilità, a veicoli a basso impatto ambientale per spostamenti  individuali

b)                   la produzione di un’auto pulita, a basse emissioni, sicura, riciclabile, per il mercato sostitutivo delle auto in circolazione e la promozione della ricerca  per  veicoli innovativi e carburanti “puliti”  basati su  energia rinnovabile

c)                    Il potenziamento dei servizi di trasporto collettivi su ferro e gomma e la predisposizione di un sistema di servizi  innovativi legati all’automobile (car sharing, integrazione con il TPL, servizi a chiamata, trasposto scolastico, trasporto persone a mobilità ridotta, consegna merci a domicilio)

d)                   La promozione di un sistema di logistica integrata per il trasporto delle merci che punti all’intermodalità tra il trasporto su strada (da ridimensionare), il cabotaggio ed il trasporto ferroviario (da incrementare)

C’è consapevolezza che si tratta di una riconversione né semplice né rapida  perché i numeri  sono impressionanti: il sistema ”automotive” dalla costruzione alla vendita e manutenzione dell’auto impiega in Italia circa 1.000.000 persone, nel settore dell’autotrasporto lavorano 330.000 addetti  ed il sistema di prelievo fiscale del sistema auto (veicoli, carburanti, multe) porta nelle casse dello Stato  ogni  anno  81 miliardi, circa il 20% delle entrate totali. 

Ma altri dati del sistema trasporti  italiano indicano comunque opportunità e numeri utili da cui partire in modo realistico: nel settore del trasporto pubblico e privato su strada (inclusi i taxi) lavorano 150.000 addetti,  nel trasporto ferroviario nazionale e locale sono impiegate altre 110.000 unità, il sistema portuale  nel suo complesso impiega 100.000 addetti e circa 25.000 muovono il sistema di trasporto marittimo,  circa 2880 lavorano nel trasporto merci fluviale interno e ben 45.000 addetti  lavorano nelle agenzie di viaggio ed operatori turistici.  In totale sono dunque  circa 435.000 gli addetti nei servizi di trasporto “sostenibili” rispetto al complesso dei servizi di trasporto pari a 968.491 addetti.

Quello che colpisce de i dati italiani con il resto dei paesi europei  è il confronto con la Germania, che  su di un totale di 1.317.000 addetti nei servizi di trasporto, ne  lavorano nell’autotrasporto il 23,4% pari a 309.000 unità (meno dell’Italia)  e ben 292.500 addetti (il 22,2%) sono impiegati nel trasporto pubblico e privato su strada, cioè praticamente il doppio dell’Italia, dove lavorano nell’autotrasporto il 34% di occupati e nel trasporto collettivo solo il 15,4% degli addetti totali.  Già da questo  confronto con il paese odierna locomotiva d’Europa, possiamo trarre suggerimenti su cosa dovremmo fare anche in Italia:  aumentare i  servizi di trasporti ai passeggeri e  ridimensionare il trasporto stradale con l’intermodalità della gomma con ferro e mare. Già oggi una stima prudente di esperti del settore indica che il personale direttamente impegnato per la produzione dell'intermodalità terrestre è dell'ordine di 4.000/5.000 persone e sono questi i settori innovativi da far crescere.

Peccato che in questo momento in Italia la strada intrapresa sia esattamente opposta.  Il Governo ha tagliato le risorse per  il trasporto collettivo  su ferro (circa 20%) e le Regioni, alle prese con i tagli, stanno ridimensionando  anche il trasporto su autobus  e/o aumentando le tariffe per il mantenimento dei servizi  esistenti. Insomma nessun piano di efficienza  serio del settore che riduca i costi, innovi servizi  e  rilanci il settore.

Allo stesso modo una forte innovazione è richiesta nei servizi di trasporto delle persone a domanda individuale dato che solo una parte di spostamenti può essere risolto a costi accessibili con il trasporto collettivo. L’obiettivo è quello di non vendere automobili  in proprietà ma di vendere servizi di trasporto in auto, come il caso del  car sharing, dell’autonoleggio “facile”,  del taxi collettivo e del noleggio con conducente.

Nel trasporto merci le cose non vanno meglio, con il trasporto ferroviario in caduta libera, il sistema portuale impantanato con una  riforma che si attende da anni ma soprattutto senza l’autonomia finanziaria che gli consenta di pianificare gli investimenti e strategie convincenti per competere nel mediterraneo, poche le  briciole destinate all’ecobonus per il trasporto combinato ma ben 400 milioni per il 2011 di aiuti all’autotrasporto su strada.  Insomma la solita strategia di grandi aiuti all’autotrasporto (ben 5 miliardi in dieci anni) e quasi nulla a tutto il resto.

Nel “sistema automobile” sono attualmente impiegati 130.000 addetti complessivi , mentre tutto il segmento di produzione degli autobus ne occupa circa 10.000, quello del  ferroviario e tramviario (tra grandi aziende ed indotto) circa 15.000 e infine  il mondo delle due ruote (moto, ciclomotori e bicicletta) occupa circa 13.500 addetti alla produzione.   Se vogliamo parlare di riconversione del sistema da  un lato  dobbiamo indurre un ridimensionamento del sistema auto, che comunque  manterrà sempre una quota significativa di produzione,  sia per il mercato sostitutivo e sia per l’innovazione di prodotto e di servizi, con un’auto a basse emissioni, sicura, riciclabile, ad energia rinnovabile. Un veicolo che ancora non c’è e che richiede un progetto di ricerca pubblico/privato  credibile,  che coinvolga centri di ricerca, università, intelligenze,  legato  direttamente alla soluzione del problema dei carburanti dopo la fine del petrolio.

La strategia essenziale  nel settore industriale è puntare all’aumento della produzione di autobus, di treni, tram, tutti segmenti produttivi  che oggi sono in forte sofferenza  sia perché mancano investimenti pubblici per l’ammodernamento dei  mezzi di trasporto collettivo e sia perché questo alimenta  la debolezza delle nostre imprese nella concorrenza globale. Ma  nessun investimento significativo sta arrivando nel settore del trasporto ferroviario metropolitano e regionale. Sappiamo bene che gli investimenti pubblici devono essere messi a gara ed è giusto che vinca il migliore a livello mondiale, ma in Italia manca completamente una strategia industriale per questi settori,  che aggreghi imprese ed indotto (con incentivi fiscali per esempio) e metta le nostre aziende in grado competere a livello mondiale.

Il settore autobus vive una crisi molto seria perché si è smesso di investire nell’ammodernamento dei mezzi di trasporto collettivo su strada. IL Governo non investe, le Aziende non hanno risorse per i nuovi veicoli ed è stata abbondata la strategia di anni passati che aveva abbassato l’età media del parco autobus: adesso siamo a 9,3 anni di media contro i 7 anni della media europea.   Anfia Autobus ha chiesto con forza al Governo di riprendere gli investimenti perché ne hanno bisogno le aziende ed i loro occupati, ci guadagnano gli utenti e migliorano le prestazioni ambientali.

Anche  la vendita  delle due ruote, cicli e motocicli sta vivendo una crisi evidente, con una piccola ripresa  della bicicletta seguito degli incentivi assicurati dal governo nel 2009, nonostante che vi sia molto interesse e disponibilità da parte dei cittadini verso queste modalità sostenibili. Oltre ai 13.500 addetti del settore  nella produzione,  Ancma stima che in Italia siano circa 90.000 le persone impiegate nella  commercializzazione, riparazione ed accessori  di prodotti legati alla bicicletta, moto e scooter:  si tratta dunque  di numeri significativi.  C’è un problema di diffusione della bicicletta che ha grosse potenzialità nelle città italiane e di recente il bike sharing è diventato una piccola realtà anche per il nostro paese, ma bisogna dedicare spazio sicuro alle due ruote con corsie, piste e strade riservate alle bici. Di nuovo abbiamo troppe auto in circolazione nelle nostre città con 60 veicoli ogni 100 abitanti mentre Germania, Francia, Spagna  si aggirano su 50 veicoli ogni 100 abitanti.

Infine anche nel campo degli investimenti  infrastrutturali serve riorientare la spesa dalle grandi opere inutili e dalla costruzione di nuove  autostrade programmate verso le reti per la mobilità su ferro urbana e regionale, in coerenza con la strategia di sostegno verso la mobilità sostenibile. Metropolitane, tramvie e ferrovie suburbane sono il vero buco nero del nostro sistema di  trasporti.  In Italia  ci sono 161 km di metropolitane e 591 km di ferrovie suburbane mentre in  Germania sono ben 606 km di metro e 2033 km di ferrovie urbane e dati analoghi ci sono in Francia, Spagna e Gran Bretagna.  E questo è anche un modo  concreto per dare occupazione nel settore delle costruzioni per opere utili.

Non sfugge a nessuno che la principale obiezione che verrà alla riconversione del sistema “tutto auto” verso un sistema di mobilità più appropriato e sostenibile, è che c’è  bisogno di ingenti risorse pubbliche e private per poter camminare.  Ed in tempi di risorse pubbliche scarse questo è un problema molto serio. Una parte della spesa deve essere riconvertita da sussidi perversi che vengono dati adesso a sistemi da disincentivare come l’autotrasporto e  le grandi opere inutili da destinare a trasporto combinato ed infrastrutture ferroviarie urbane.  In alcuni settori innovativi legati ai servizi di trasporto a domanda individuale dovrà essere incoraggiata e sostenuta l’iniziativa privata. Le aziende di trasporto pubblico su gomma e ferro dovranno fare la loro parte per l’efficienza dei costi perché è impensabile aumentare i servizi aumentando i debiti: efficienza, innovazione  e rilancio devono essere  diverse facce di una stessa strategia.

Se si innesta un circolo virtuoso probabilmente anche la spesa delle famiglie che oggi destinano circa 115  miliardi ogni anno per l’uso dell’automobile potrà essere riconvertita verso servizi di trasporto collettivo, verso servizi innovativi legati all’auto, alla bicicletta, al car sharing,  sostenendo quindi la redditività di questi servizi offerti alla collettività.

 

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Frammenti di un’ipercritica dell’auto. Appunti presi seguendo, a piedi nella città, Simmel e Benjamin, e scrivendo sui margini di Minima Moralia,  di Carlo Donolo

 “Il traffico prima si è posato con eleganza sulla forma della città moderna, collegando spazi e tempi nelle ben disegnate spirali delle superstrade e delle tangenziali, dall’alto come nervi e vene, capaci di penetrare fino all’ultimo quartiere e di attraversare continenti. Poi poco a poco la città si è piegata sotto il peso e la stretta: ha fatto largo, ha ceduto fisicamente e moralmente”

In queste pagine considero l’auto nel traffico urbano come un modello di azione sociale che permette di accedere a molti dei misteri insondati della società contemporanea. Leggo nella riunione dei tre termini: auto, traffico, città, il compendio non solo di molti mali sociali o ambientali, ma la matrice di una specifica antropologia ipermoderna o anche postmoderna. Ipotizzo che in quel nesso si trovi qualche chiave di lettura dell’evoluzione dell’individuo, del gruppo ed anche della specie. Considero plausibile questa linea interpretativa in quanto il connubio auto-traffico-città è generativo di comportamenti, giustificazioni, criteri di condotta e visioni del mondo molto più ampie del contesto originario. Si può dare scontata in partenza la centralità dell’auto, del traffico e della città per ogni società contemporanea, più o meno a partite dagli anni ‘30 nei paesi industrializzati e, a partire dagli anni ’60, in tutti gli altri.  Si può dare per acquisita la centralità dell’esperienza automobilistica per la formazione dell’individuo contemporaneo, per la forma della città, per la formazione delle preferenze individuali e collettive. Si può infine considerare “fatale” per la società attuale la dipendenza dall’auto nel traffico della città. Dipendenza materiale o logistica, ma anche industriale o economica, ed anche sociale per la sociabilità  possibile/impossibile e per le forme ipermoderne dell’ insocievole socievolezza.

Dell’auto conviene subito dire tutto il bene possibile, anche se ciò è praticabile solo nello stile di Marco sul cadavere di Cesare. L’auto è l’uomo d’onore da venerare, almeno ipocritamente. Se non trattiamo qui esplicitamente i meriti pratici e sociali dell’auto è perché li diamo per scontati ed autoevidenti. Senz’auto saremmo tutti più poveri, più fissi, più statici, più meschinamente pedoni, o vittime del trasporto pubblico. E invece l’auto ci libera dal tempo e dallo spazio e ci trasforma in agitate molecole sociali in perenne movimento. Da ciò deriva tanta parte del nostro benessere, anzi dell’autorealizzazione individuale e quindi per aggregato della felicità collettiva. Gran parte delle illusioni che coltiviamo su di noi, sul mondo, sugli altri trova nell’auto un potente mezzo di persuasione. Mai come in questo caso le nostre preferenze rivelate – che parlano di autonomia – sono preferenze adattive – che parlano di eteronomia. Poca cosa sarebbe la libertà dei moderni se non ci fosse l’auto, l’auto come re-ligio. Parliamo qui solo dell’auto in quanto mezzo di trasporto (ma questa è ovviamente una visione riduttiva del ruolo dell’auto) privato nelle aree urbanizzate, non del trasporto merci o degli usi sportivi. Si tratta però della componente centrale dal punto di vista sociale. Qui l’auto ha saputo legittimarsi, come mezzo, no anzi come medium sociale universale, presto accessibile a tutti, anche in più esemplari, e quindi affine al cellulare venuto dopo, e divenuto ovvietà quotidiana. In ogni ambiente umano l’auto è presente e spesso strategicamente decisiva, irrinunciabile: lavoro, ferie, serate, gite, spesa all’ipermercato, scuola dei figli. Che brutto però quando il giocattolo si rompe: forature, finita la benzina, non parte, batteria scarica. Per il maschio l’auto è come la donna: fonte di tormento e speranza di felicità. Per la donna l’auto è una macchina, un mezzo strumentale, che non fa parte del suo universo emotivo, accettato in quanto e fin quando necessario: come il maschio?

Una curiosità, che fa parte del mistero insondato: non esiste una sociologia dell’auto, come esiste invece una sociologia della radio, della tv e di altre merci e oggetti tecnologici, o anche di internet[1]. Perché? Sebbene di auto si parli come del calcio, in ogni occasione e sotto i più diversi pretesti, sociologicamente l’auto è stata fatta sparire. Se ne sono poi occupati gli ambientalisti, e in buona sostanza è oggetto di studio tecnico solo per ingegneri ed economisti del traffico. Si può invocare la sua ovvietà quotidiana, il suo eccessivo intreccio con mille aspetti della vita sociale, il suo non essere un problema, piuttosto una soluzione. Ma non possiamo dimenticare la forza dell’apparenza socialmente necessaria o – se si preferisce – la sindrome della lettera trafugata à la Poe, o ancora la scotomizzazione sempre all’opera quando abbiamo a che fare con fonti di piacere e di tormento. Conosciamo l’auto più dalla pubblicità che dal suo uso reale, e quindi essa viene a far parte dell’immaginario quanto e più che dell’esperienza. Questa è interpretata da quello. Per cui l’auto è oggetto di culto, non di analisi. E la riflessione sociologica – che pure tratta i temi più stravaganti – tace di fronte alla pesantezza di un’ovvietà colossale. Un’altra spiegazione: si dice che siamo passati al postfordismo. E no, nel caso dell’auto la faccenda non sembra così ovvia. Finché c’è auto nel traffico direi che non siamo riusciti ad uscire dal fordismo, ce ne trasciniamo dietro un grosso pezzo, quello che era centrale. Allora, da qui una riflessione sulla mobilità nella città che risponda davvero ai canoni postfordisti, quindi in primo luogo senz’auto, poi senza traffico.

Veniamo pian piano al dunque – chi scrive è un pedone ostinato -. Osserviamo l’auto nel traffico urbano. Guardiamo gli automobilisti, i guidatori. Cosa fanno, cosa gli viene fatto, cosa esprimono. E’ possibile pensare un’antropologia negativa a partire dalla figura sociale del guidatore [parliamo sempre del coacervo auto-traffico-città]. Del resto solo pensando il negativo fino in fondo possiamo intravedere barlumi di un brave new world senza quel connubio. La questione è cosa l’auto fa agli automobilisti, le trasformazioni antropologiche indotte dalla dipendenza dall’auto:

  • Le facce: il volto dell’automobilista è segnato dalla durezza dell’esperienza su strada: rughe precoci, smorfie, muscoli tesi, lingua pronta all’insulto, occhi spiritati che non guardano la segnaletica ma gli avversari, i concorrenti, i competitors. Cioè gli altri automobilisti vicini, anch’essi tesi nello sforzo, nell’ansia, nella tensione del balzo predatorio dello spazio e del tempo altrui. L’automobilista nella media sarebbe né bello né brutto, le automobiliste sono spesso piuttosto curate (e non perdono tempo ai semafori e nelle code per riaggiustarsi); ma stare nel traffico con quella tensione rende brutti. Il volto diventa oscurato, incattivito, livido (da livore urbano, come diceva Gallino), anche ottenebrato in quanto vengono eliminate tutte le forme di intelligenza che non siano funzionali alla lotta per la sopravvivenza nel traffico. L’automobilista diventa brutto, e sempre di più si accanisce contro se stesso, del resto esiste una correlazione molto elevata tra guida e fumo, e probabilmente anche abuso di caffè ed altri eccitanti. Alla lunga guardandosi nello specchietto l’automobilista si riconosce trasformato dal mezzo, dal suo essere diventato a sua volta un mezzo per una lotta tra Hp e marchi, di cui all’inizio si era illuso di essere il protagonista.

  • I gesti: gesticola a scatti, la tensione muscolare della guida si scarica in rictus e tic inconsapevoli, in aggressività rivolta verso se e verso gli altri che capitano a tiro. Non c’ amore, ma neppure odio, solo estraneità reciproca, non ci si vorrebbe mai incontrare, l’ideale è leibniziano, e a stento si tollera qualche componente di clinamen o di occasionalismo, inevitabile nella densità del traffico. Si tratta di filosofia pratica, anzi esistenziale, vissuta sulla pelle, trasmessa da occhi vitrei, se potessero essere visti sotto il riparo frequente degli occhiali neri, trendy, componente della maschera tra Blues Brothers e malavita, machismo che si è trasmesso anche alle guidatrici. I gesti sono coatti, modellati dallo spazio interno dell’auto, per quanto comodo, e dalla percezione nervosa di quello esterno, sempre insidiato da qualche competitore. Altri sono gesti di routine, per darsi un ruolo, hanno carattere ripetitivo e ritualistico, mediano il rapporto tra corpo e macchina, in modo da configurare un sistema uomo-macchina adattivo. Ma che fatica! Sono i gesti di un animale in gabbia.    

  • I pensieri: gli vengono in mente cose brutte, o tristi e deprimenti, o cattive e insolenti. Cosa da fare, non fatte, non più fattibili. Conti da pagare, multe comprese, scoperti sul conto. Ritardi in agenda, rincorse, rattrapages, ansie da ritardo, dimenticanze, sbagli nella scelta del percorso, pensieri ostili a tutto ciò che è umano, delicato, bello, giusto. Non perché ignorato, ma perché in quel contesto e in quella scatola solo il male ha senso, e il bene farebbe male, inducendo un comportamento meno aggressivo e meno capace di garantire la sopravvivenza. La mente svaga fino al limite della situazione di pericolo, non riesce a concentrarsi su un pensiero produttivo che non sia ossessivo. Vengono in mente soprattutto cazzate [scusate, ma il guidatore è incline a un linguaggio drasticamente semplificato], anche cose di cui ci si vergogna, dopo, o ci si vergognerebbe, altrove. Così il guidatore viene a conoscere di se stesso, senza psicanalisi, cose oscure e intorcinate, lati d’ombra, scotomizzazioni che nell’ardore ansioso della competizione automobilistica risalgono da un pozzo profondo alla luce dei semafori, all’aria inquinata degli ingorghi, e alimentano i gesti nervosi e coatti: sul volante, nella tensione del piede sulla frizione, sul gas, nel tamburellare sui vetri, mentre le guidatrici si tormentano le ciocche dei capelli,  nello sforzo di ricacciare indietro quei brutti pensieri, di tornare “normali”, non così bruti.

  • Le passioni: più forti dei pensieri sono le passioni. Sono rivolte all’oggetto del desiderio con una forte componente erotica, saccheggiata dalla pubblicità,   sono rivolte agli altri nel traffico – noi e gli altri come dice Todorov, perché mai l’altro è tanto estraneo quanto nel traffico -, sono rivolte ai compagni di viaggio, in genere fonte di nervosismo, ed anche a se stessi: tra narcisismo del sentirsi uomo-macchina e onnipotente dentro il guscio, e paura della lotta per la sopravvivenza. Speranze poche, illusioni sempre rinnovate (“sul raccordo si scorre”, “conosco un percorso alternativo”), amore e odio verso se stessi, verso l’auto, verso l’autostrada e il raccordo, tutti investimenti libidici intensi che lasciamo spossati alla fine, e quindi riattivano il bisogno di adrenalina con una partenza a razzo o con un sorpasso azzardato. La lunga carenza di amore: di sé, degli altri, dell’ambiente circostante, delle norme, della civiltà infine, trasmettono un senso di amaro che si confonde con quello del caffè, una deprivazione di tenerezza che fa regredire l’automobilista che vorrebbe coccole, riconoscimento, onori per lo sforzo, una spazio per affetti non regressivi come quelli praticabili nell’auto con l’amante, la famiglia affollata e vociferante, o nella solitudine del viaggio solitario. Perché il guidatore è sempre solo, con un se stesso svuotato e dimidiato, c’è il mezzo e c’è la meta, c’è lo spostamento nello spazio che consuma tempo. L’attimo di immortalità nel guidare (una curva ben fatta, un sorpasso geniale) splende nel suo isolamento sullo sfondo di una mortalità e caducità onnipresente: il senso di inutilità dello sforzo dell’accelerare la fruizione del tempo e dello spazio, la frustrazione di essere sempre distanti da qualcosa. Abbiate rispetto per la solitudine del guidatore, individuo moderno se mai ce ne furono, eroe misconosciuto, ha rinunciato alla lingua per la guida, ma ha assunto su di se la moira, e tra tic e pensieri funesti, affronta il suo destino ogni volta che sale in auto. Non a caso l’accompagnano i santini, gli amuleti, le preghiere e le raccomandazioni della madre, l’ominoso “buon viaggio!”. Appunto il viaggio, lo spostamento, la sospensione tra luogo e luogo finché dura, il tempo beato della guida, che parafrasando Nietzsche e Mahler è “ewig”, “will Ewigkeit” chi guida è un moderno anacoreta, uno stilita dello spazio-tempo, è assorto, autoreferenziale, socialmente freischwebend.

  • Gli interessi e le preferenze: l’auto è fonte di preferenze, ben oltre il contesto dell’oggetto mercantile, del traffico e perfino della città. L’individuo è in grado di ancorare (e derivare) le sue preferenze dall’esperienza dell’auto: come soggetto fiscale, come cittadino, come city user, come produttore di esternalità verso l’ambiente sociale e naturale. Sviluppa un modo tutto suo di considerare funzioni pubbliche, beni pubblici, interessi collettivi. Si pone come soggetto di diritti, i doveri sono un optional. In Italia soprattutto il defezionista sistematico: come evasore, abusivo costruttore, anarchico in quanto incapace di obbedienza intelligente, si è forgiato sul modello auto nel traffico. Lì ha appreso quanto sia utile l’incertezza del diritto, l’opportunismo controllore-controllati, l’abuso dei beni comuni, le strategie della sfiducia, farsi le regole a piacimento e diventare fuori-legge nell’opacità del traffico, dietro lo schermo del parabrezza. Alla lunga queste preferenze sono diventate fortemente adattive, in quanto ha dovuto-voluto subire le coazioni e le inefficienze dell’auto, del traffico, delle vie di comunicazione, le ha incorporate nella propria funzione di produzione come guidatore, e si è adattato a sopportare tutti gli inconvenienti pur di non mollare. Così le sue preferenze rivelano tanto il suo odio per tutto quanto sia interesse collettivo, quanto la capacità di sopportare: costo della benzina, assicurazione, contratti asimmetrici, ingorghi, incidenti, danni, inquinamenti: giudice e boia di se stesso; le preferenze lo legano come dipendenze funeste ma inestricabili, ha sì sentimenti forti, (strong feelings, come dice Elster) ma lo dominano, non sono suoi, sono quelli di tutti, di tutti i suoi competitori nel traffico. 

Guardiamo ora le auto, come si muovono, a prescindere dal guidatore, veri automi che seguono regole proprie corrispondenti alla logica di processi complessi, autoorganizzati, e come tali sottratti alle volizioni umane:

  • Caos: oltre una soglia, l’auto non conta più come tale, ma solo come particella in un brodo caotico. Il caos ha le sue regole, che sono quelle della complessità. A certe condizioni c’è auto-organizzazione e così il codice della strada cede a leggi di natura. Le riconosce l’ingegneria del traffico, le apprende con l’esperienza il guidatore, nodo di una rete casuale, che va strutturandosi sempre più: dal Maelstrom qualcuno si salva, ma non si può sapere prima chi e perché. Dalla legge del caos si passa a quella della sorte morale: c’è andata bene, questa volta, e la prossima? L’ordine, che è riconoscibile nel caos apparente da un osservatore esterno, fatica a comunicarsi come dato di realtà al singolo nodo: comprende solo di essere contingente. Nessuno è indispensabile e può essere sacrificato, purché il tutto scorra alla sua meta, oppure si blocchi in una melassa senza scampo. Dipende.

  • Autoregolazioni: l’attore – l’autista – reagiscono, cercano un ordine anche oltre se stessi, si guardano in giro, quando gli appigli offerti dal sistema (codice, segnaletica, indicazioni ed ordini) non bastano più o sono sommersi dall’entropia delle regolazioni mixata con quella derivante dalle interazioni caotiche,  nascono routine, intese con gli occhi, abitudini, tolleranze e scarti sempre più consolidati, che solo l’infinita pazienza del guidatore sa riconoscere e legittimare: quando e dove parcheggiare in terza fila, andare contromano, aprirsi un varco, imporsi. Le autoregolazioni nascono evolutivamente – e perfino cooperativamente – dalla legge del più forte, del più furbo, del più audace. La fortuna qui la premia e il suo gesto innovatore è ammirato e poi disseminato, poco a poco il leader avrà seguaci. Nel traffico non ci sono innocenti, solo leaders and followers.

  • Norme sociali: sono norme sociali in contrasto per lo più con le norme giuridiche. Sono orientate al problem solving certo, non all’ordine morale, e vanno giù pesante. L’importante è muoversi o parcheggiare, o svicolare. Mirano anche ad imporre un ordine socialmente riconoscibile, per esempio nel rapporto gerarchico tra fuoristrada rostrato e umile utilitaria, o anche tra motorino impertinente e pedone ingombrante. Tali norme non escludono curiose cavallerie, fair play, una dimensione sportiva è inerente al gioco, ma quando questo si fa duro – nei punti più densi del caos – allora non si bada a costi: ci saranno vittime, esternalità, costi sociali, non importa. Le norme si autogiustificano in riferimento alla situazione caotica – ma quali regole?! – e si sviluppano anche argomenti di buon senso, non si può far altro, che dobbiamo fare, e ci sono capri espiatori tra governi ladri, vigili neghittosi e lumache (chiunque sulla strada appaia ingombrante, lento, fuori posto). Le norme sociali che vengono seguite quando il caos si struttura sono copie delle leggi di natura, di una natura avversa ed hobbesiana, ma dal cui seno è impossibile staccarsi. Dal caos del traffico nessun  contratto sociale, codice della strada, potrà mai traghettarci alla pace dell’ordine. Possiamo solo contare sul concorso di leggi di natura e di norme sociali evolutive: ciò non permetterà di viaggiare ordinatamente, ma permetterà almeno di non dover mollare l’auto come soluzione che fa problema, e in questo è il bello dell’auto.

  •  Capitale sociale e umano: abbiamo visto, tutto ciò che è umano deve essere estraneo a chi guida, come  fattore di disturbo; abbiamo visto che la sofferenza del guidatore è umana, descrivibile ancora con parole classiche e con pietas, ma questo vale solo per un osservatore imparziale, capace di empatia. Nel traffico, dentro l’auto, il discorso è un altro: spogliarsi di ogni virtù che non sia funzionale allo stare “dentro” e a sopravvivere. Lo si fa solo per quel momento, pensando che poi – scesi – riprenderemo abito e volto umano. L’autoinganno è doloroso, ma efficace: permette di prendere – con i piedi a terra – distanza dal ruolo, e di non identificarsi del tutto con quella forma di vita degradante, di riprendere fiato, e prepararsi alla prossima volta; intanto la forza ci plasma e poco a poco quella dis-umanizzazione momentanea diventa pervasiva, da forma a tanti altri desideri e gesti. Un buon guidatore, emerso dalla giungla d’asfalto, è anche un migliore competitore nella vita sociale, più aggressivo e determinato, deciso a non farsi sorpassare, a trovare il suo posto, ad arrivare prima. Del resto, come potrebbe altrimenti: anche fuori dall’auto e dalla strada, continua a muoversi in un mondo di ex-guidatori come lui, che condividono il suo Dasein, non solo al semaforo, ma anche nell’arena esistenziale basta uno sguardo d’intesa. Nella fraternité dentro il caos del traffico come destino legga il teologo l’ultima luce intermittente (freccia, stop, emergenza?) dello spirito o della provvidenza, poi c’è point zero.

  • Stato di necessità e sopravvivenza del peggiore: è vero, nel traffico ci si sta per obbligo, perché lo fanno tutti. Ma rispetto al traffico ci si trova in uno stato di forza maggiore, più forte delle stesse norme o habits sociali. Si tratta di una legge di natura, applicata all’essere umano, invece che – come nel caos auto-organizzato – all’auto in quanto monade cinetica. Lo stato di necessità si distingue anche normativamente per la condizione di irresponsabilità in cui viene a trovarsi il soggetto. Non può rispondere, è parzialmente incapace di intendere e volere altro da quello che il traffico gli propone. In questa condizione, conviene tirare fuori la grinta. Anche un viaggio con il più mite dei guidatori, come quelli ai quali mi accompagno qualche volta per fare esperienza, è segnato da osservazioni critiche, insulti criptici e genealogici, ponderate spiegazioni tecniche e sfoghi di rabbia aggressiva contro la condotta (mi correggo: nello stato di necessità si tratta di comportamento, behaviour) di altri automobilisti. Dunque lo stato di necessità evince istinti profondi, passioni hobbesiane (pre-contratto). La teoria dei giochi ci spiega cosa succede a questo punto. O la situazione evolve verso forme cooperative (subottimali, in ogni caso, ma caratterizzate dalla cristallizzazione di norme sociali – tipicamente in contrasto con il codice della strada – come abbiamo già visto; oppure, evolve verso il conflitto generalizzato e indiscriminato in cui si afferma il più violento e tipicamente avviene l’incidente tragico; oppure ancora, il conflitto si diffonde e si parcellizza e il risultato è un costo sociale diffuso su tutti [rallentamenti, ingorghi, tamponamenti, livore, rinvio sistemico a li mortacci tua], magari senza vittime – delitti senza vittime nel traffico, un miracolo! – ma che lasciano ovunque traccia del disordine sociale, del mancato legame sociale, della disunione, della Ungeselligkeit fatta dottrina di vita e pratica quotidiana. Insomma, alla lunga chi emerge dalla vischiosità del traffico? Il peggiore, cioè il migliore, intendiamoci, il sopravvissuto è sempre un eroe, sembra l’Achille di Troy, reduce da un brutto lavoro, ma necessario. Armato di SUV è invincibile, sa che non deve guardare in faccia nessuno, per lui aprirsi un varco nel traffico è come per Mosé il passaggio del Mar Rosso. In questa contesa si forma l’individuo ipermoderno, che evolve come uomo-macchina e di macchina – essa sola veramente auto-mobile - muore.   

  • La città piegata: il traffico prima si è posato con eleganza sulla forma della città moderna, collegando spazi e tempi nelle ben disegnate spirali delle superstrade e delle tangenziali, dall’alto come nervi e vene, capaci di penetrare fino all’ultimo quartiere e di attraversare continenti. Poi poco a poco la città si è piegata sotto il peso e la stretta: ha fatto largo, ha ceduto fisicamente e moralmente. Prima viene il traffico con  le sue arterie, poi il resto, se resta spazio: la città si riduce a non luogo interstiziale, come le erbe tra le sconnessioni dei marciapiedi, dove per eccezione la superficie non sia coperta da auto in sosta o in movimento, da strutture per il traffico, e dagli inevitabili aloni: carcasse, gomme, batterie, cerchioni, macchie d’olio, pacchetti di sigarette e mozziconi gettati con gesto snob dal finestrino. L’auto è nata al servizio della città per farla crescere, per ridurre le distanze tra città. Poi ha messo la città al suo servizio, e per farlo ha dovuto surclassare il trasporto pubblico, delegittimarlo, ridurlo a fatto marginale, socialmente inferiore, emarginarlo anche dall’innovazione tecnologica, in modo che diventi il luogo del passato, dell’obsoleto, dello scomodo, dell’inattuale. Ciò ottenuto ha proseguito la marcia trionfale, soggiogando il sottosuolo per parcheggi, l’aria con l’inquinamento e il rumore, abituando anche i pochi mortali restati con i piedi per terra, a tollerare ad assuefarsi al rumore di fondo e a considerarlo parte essenziale della vita collettiva: la città è caos, e in questo caos vinca il più forte (uomo contro donna, giovane contro vecchio, indisciplinato contro disciplinato…). La bestia scatenata non ha più domatori convinti: gli ingegneri calcolano flussi, canali, maree automobilistiche con aria sconsolata e scettica. Gomma batte ferro.

  • Fortuna morale: quanto è bello lu murire acciso in autostrada, ovvero oggi a te, domani a me. Manca ancora un Shakespeare per questo dramma della fortuna machiavelliana, dove la virtù può poco. Ci sono le statistiche che misurano il rischio, ma il caso concreto è sempre un caso. La probabilità che tocchi proprio a me è minima, è vero, ma si deve sperare fortemente che tocchi a qualcun altro. Il traffico caotico con le sue autoregolazioni colpisce casualmente secondo probabilità note (per certi tratti di strada particolarmente pericolosi), ma c’è molta rassegnazione. Ai bordi piccoli cippi decorano la strada, domestici memento da sfiorare con lo sguardo e subito dimenticare. Se ne ricava inconsciamente una carica di energia per sopravvivere, ancora una volta. Nel traffico caotico mai trovarsi al momento sbagliato nel punto sbagliato, la fortuna morale è la fortuna del caso, che aiuta gli audaci. Dei nascosti, i demiurghi delle assicurazioni, osservano da lontano l’andamento distributivo della fortuna e ne traggono auspici di profitto (o di perdite, perché il traffico quando è esagerato fa saltare le valutazioni prudenziali). I giornali parlano di “tributo di sangue”, nei weekend critici e di partenze poco intelligenti, ma il moloch non è il viaggio, ma il mezzo, anzi quell’essere collettivo che è il traffico, tipo le comunità degli insetti[2], rette dalle leggi della complessità. Immortale dunque è solo il traffico, non il singolo viaggiatore in auto, pronto alla propria fortuna, quale che sia, purché sia in e tramite l’auto.

  • Crash: il traffico implica l’incidente, e dall’incidente si genera un brave new world, dovuto all’incredibile capacità adattiva dell’uomo-macchina rispetto al suo abitacolo e allo spazio esterno ripieno di altri abitacoli in movimento. Se ne deriva un incidente, abbiamo l’effetto crash, cioè la trasformazione formale dell’auto in rottame e del corpo umano in corpo disabile. Con ciò la storia sociale non finisce: ci sono riparazioni possibili e ci sono sfasciacarrozze; ci sono cimiteri, ospedali e tecniche riabilitative. Così Ballard immagina che una popolazione – un’avanguardia – di vittime del traffico,  legate esistenzialmente all’auto, trovi forme di interazione erotica nel groviglio composto di  arti, protesi, lamiere e nodi di traffico (il meglio sono le tangenziali e i grandi svincoli). A riprova che non c’è uscita da un universo che genera e seleziona anche i propri membri più adatti e li piega alle proprie esigenze, affascinandoli e seducendoli con il nesso tra orgasmo e fortuna morale, un po’ come negli sport estremi tipo il jumping. Ballard insiste anche in Millenium people a descrivere un universo autocentrico e autoroutecentrico, in cui l’anima dell’uomo è coestensiva con gli spazi di possibilità/impossibilità nel guscio dell’auto e del più ampio guscio del traffico, mentre la città scorre ai lati superflua nella sua stasi. La si può solo abbandonare: al traffico come potenza autopoietica.  

  • Sogni infranti e contraddizioni in seno al popolo: fa parte dell’esperienza dell’auto nel traffico il sogno infranto. Quando una compra la macchia sognata la pensa nei termini della pubblicità: spazi aperti, natura incontaminata, belle donne, la comodità del viaggiare, tutto fila liscio, o anche ora divento super-uomo da SUV. Immessi nel traffico, il discorso cambia, la realtà è brutale, e il bell’oggetto diventa brutto, sporco, insicuro. Date le aspettative, l’auto diventa meta di attese destinate ad andare deluse. La frustrazione da auto scava sottilmente ma durevolmente nell’animo dell’uomo contemporaneo. Non lo ammette, ma si indurisce nella negazione. Del resto anche questo è funzionale, accresce la sua aggressività. Diventa metafora di tanti altri desideri frustrati, e mentre il capitalismo piega la frustrazione nel senso di far formulare richieste sempre più forsennate, ci sarebbe da chiedere se non si potesse lavorare su queste incoerenze fino al punto di rendere l’auto non desiderabile. Diciamo altrimenti: il successo del capitalismo è legato al successo dell’auto come collante sociale. Solo quando l’auto non sarà più centrale, si riparlerà di “un altro modello”. Del resto lo richiederà sempre più la sostenibilità. Contraddizioni in seno al popolo, però, sia chiaro, perché il sistema auto-città-traffico è coerente nel suo annodare ben stretti motivo del profitto e consumo di beni comuni, e nel collegare consumo (come domanda sempre mobile verso mete automobilisticamente più alte), vis existendi e amor sui[3].

  • Estetica del brutto: hanno reso brutta la città e la stessa auto. Come? Creando il traffico. Alle fiere si valuta l’estetica dei modelli su un singolo esemplare. E chi negherebbe la bellezza di tanti modelli? Però nel traffico la bellezza non si addiziona ma si sottrae, più auto significa che tutte diventano uniformemente brutte, e imbruttiscono il passeggero e l’ambiente circostante. Anche da ferma una massa di auto parcheggiate è un obbrobrio; l’effetto imbruttente sull’ambiente si riflette sull’auto stessa, rendendola ciò che è: una scatola informe, spesso sporca, un rottame potenziale e quasi sempre  anche già in atto[4]. L’auto ferma sembra sempre abbandonata, un ingombro, un’incongruenza. Ma il processo dell’imbruttimento non è correggibile con auto più belle, perché il traffico doma ogni designer. L’auto andrebbe invece disegnata, pensata, nella bruttezza del traffico e come specchio dell’abbrutimento dei suoi occupanti.

A riprova dell’effetto pervasivo: un punto da sottolineare è che l’auto nel traffico induce a comportamenti criminali di cui gli stessi autori, descrivendosi, si riterrebbero incapaci. Le persone più miti parcheggiano nei posti riservati ai portatori di handicap, persone che non farebbero male a una mosca parcheggiano tranquillamente il motorino sul marciapiede; l’odio per il pedone spinge a vociferare insulti creativi e escatologici al cubo; l’esasperazione per una coda spinge a delitti con strumenti impropri tratti dalla borsa degli attrezzi; ma c’è anche la perfection in cruelty: comportamenti irregolari e socialmente dannosi vengono portati all’eccesso: motorino messo di traverso, parcheggio davanti a passi carrabili su zebre pedonali, alla fermata dell’autobus, per dire i reati minori. Quando uno si spinge così avanti, quale sarà la sua idea del vivere sociale, degli altri, se non come di una giungla piena di nemici da neutralizzare anticipatamente, e di cui infischiarsene allegramente, con sana e buona coscienza. L’essere alla guida sembra autorizzare azioni stravaganti, nelle quali venga messa alla prova e confutata tutta la serie delle precauzioni, delle regole, degli standard, anche stilati a sicurezza dell’autista.

Il codice, paternalisticamente, cerca di individuare tutte le situazioni a rischio e avverte, vieta, sanziona. Tutto inutile: la razionalità nel traffico è altra, è sregolazione allo stato puro che cerca la propria perfezione, come impulso oscuro e come tendenza sociale, nell’esagerare: motorini contromano sul marciapiede, per avere il cumulo delle violazioni o addirittura auto contromano in corsie preferenziali, l’escalation delle insolenze reciproche, la voglia di azzuffarsi, di farsi giustizia da sé. L’auto nel traffico è la metafora più persuasiva della nostra società: ipertrofica nella tecnologia, socialmente darwinista, fatta di monadi impazzite che vorrebbero essere “fluide” (Bauman), in realtà bloccate dietro il parabrezza come mosche senza scampo.

A Roma circolano 500.000 motorini. Sono api-vespe laboriose capaci di tradurre i loro vizi privati in pubbliche virtù? Malgrado leggende metropolitane in contrario, essi non rendono il traffico più fluido, ma più pericoloso, e sono un fattore forse maggioritario dell’inquinamento acustico ed atmosferico. Inoltre reclamano un numero molto elevato di incidenti, una delle prime cause di morte per i minori. Se ai vantaggi del motorino sottraiamo i costi sociali, ci resta un risultato deludente. L’illusione della mobilità oscura alternative, blocca la città e i suoi governanti in una retorica del facciamoci del male (corsie riservate ai motorini, perché no?). Si formano lobby potenti, come quelle dei commercianti, che rendono impossibile escludere il motorino dalle zone pedonali. E le associazioni dei consumatori che fanno nella vicenda del patentino?: difendono gli “interessi” dei consumatori, famiglie e minori contro l’interesse pubblico, difendono diritti invece che calibrarli con i doveri, formando nuove lobbies che bloccheranno ulteriormente (come con l’automobilina senza patente) l’evoluzione della mobilità urbana verso altre modalità.

 Perché l’auto? L’auto non  ha bisogno di prove ontologiche per dimostrare la propria esistenza. Tuttavia, quando si considerano tutti i suoi costi sociali e le sue esternalità negative, viene da chiedersi: perché (ancora) l’auto? Avremmo la risposta se ci fosse stata una sociologia dell’auto. Possiamo ipotizzare interessi forti (tra petrolio, industria manifatturiera, servizi, e gli stessi automobilisti come lobby consumistica…), ma non basta. Se vuoi la modernità, meglio la modernizzazione, devi volere l’auto, vedi oggi la Cina. Ora perfino la mobilità sociale è mediata dalla mobilità automobilistica, attraverso la gerarchia dei modelli e dei prezzi, e l’esibizione muscolare mediata dagli hp. L’auto ha avuto il consenso popolare, è fattore decisivo di consenso politico-culturale, la maggioranza non silenziosa degli automobilisti regge il centro della struttura sociale e condiziona gli equilibri politici.  E’ inutile qui prendersela coi “padroni”. Grazie al fatto che l’auto è diventata fatto esistenziale e morale, che sorregge l’identità ipermoderna, siamo diventati consustanziali all’auto e vincolati ad essa da un doppio legame: l’auto quindi è, e casomai sono gli umani a doversi giustificare, o per non avere (ancora) il reddito necessario per essere all’altezza dell’auto ideale, o per avere un corpo inutilmente articolato, che non è mai abbastanza comodo nell’abitacolo. Ma la forza di quest’unione, e permanente attrazione reciproca, è come l’eros platonico: le due metà di cercano e in qualche modo si troveranno, nella loro biunivoca pursuit of happiness. Cosa sia possibile su questo terreno lo mostrerà appunto Ballard in Crash.

 Cosmopolis: Pensieri funesti sull’uomo, la città, l’identità, il denaro e il potere. La città bloccata, tutto è fermo, ci si muove a velocità subpedonale, intorno il traffico inselvatichisce la città e viceversa. Può succedere, e succede di tutto. Il backlash di un incidente stradale era stato già raccontato da Wolfe nel suo falò delle vanità (titolo eccellente per la condizione umana giocata dall’auto). Ma qui de Lillo mostra le implicazioni metafisiche e antropologiche della metropoli, non come giungla, ma come foresta pietrificata. Da qui non c’è futuro, infatti finisce male. Il rumore di fondo (white noise!) del traffico si è dilatato fino a un silenzio sospeso, interrotto da shoutings e whisperings entrambi irrimediabili. L’auto si ridimensiona, non è neppure più essa la causa, il motivo, il mezzo. E’ solo il luogo fisico – come in Crash – dove avvengono cose in qualche senso ripugnanti. Cosmopolis è il mondo con l’auto nel traffico della metropoli giunto alla sua perfezione, appunto a quella cruelty in perfection hogarthiana dove subentra una stasi fisica e morale. Tutto si ferma, la credibilità del nesso auto-uomo moderno-metropoli si incrina. Siamo al limite e, in positivo,  all’etica del limite, seguendo Jonas. L’auto ha emancipato le masse dalla staticità, anche più del treno. E sia. Oggi le inchioda alla dipendenza, e fa dell’individuo dentro l’auto qualcosa di superfluo, non più necessario. Appendice di una tecnologia a sua volta obsoleta. Non solo il traffico rende stupidi, ma toglie senso all’agire, erode capitale sociale e fiducia, distrugge speranza di vita e progetti. L’auto nel traffico della città diventa una questione politica. L’auto è antiquata e sta rendendo antiquato anche l’uomo che la guida. Sia chiaro la mia è tutta invidia, perché sono solo un pedone, un non-uomomacchina.

Ci vuole un Futurama: un processo di liberazione per masse critiche, che si liberano dalle proprie cattive abitudini, che sono del tutto consonanti con il motivo del profitto, il bisogno del controllo e del dominio, la stagnazione tecnologica per mancanza di domanda. Ci sono tante piccole esperienze positive, si costruiscono perfino quartieri in cui non c’è posto più per l’auto, il car sharing erode il privatismo essenziale della cultura automobilistica, le domeniche senza auto fanno riscoprire spazi di agibilità e percezioni impossibili con e dentro l’auto. Manca però il salto tecnologico, logistico, culturale, il cambio di paradigma che darebbe origine a una diversa traiettoria tecnologica. Non ci resta che attendere al bordo delle autostrade il passaggio del cadavere dell’auto[5].

Ma dobbiamo ora concludere su un tono più alto e più consono con le pretese culturali della nostra rivista. La celebre tesi della modernità incompiuta può essere testata in molti modi sul tema auto. L’auto è la modernità compiuta. Presa così, resta poco da dire: veramente le promesse sono state mantenute. Oppure: è una dimensione ipertrofica della modernità, quella della razionalità dell’utilitarismo individuale e di massa, coniugato con la potenza efficiente della tecnologia. Si sono forzati i limiti e si è erosa la base normativa, dovremmo tornare alla deliberazione. Ma si può farla in auto? Nel traffico? Diventano superflue, impossibili, irreali le componenti riflessive, discorsive, perfino la felicità biologica del corpo sensibile e sensista immaginata dalla modernità illuminata. Che avrebbe detto  Rousseau? L’uomo è nato libero e ovunque è incatenato all’auto e così via. Cosa avrebbe sognato D’Alembert? Una Ferrari lo avrebbe eccitato, con scorno della sensibile Mademoiselle de Lespinasse? E vi immaginate Jacques le fataliste come se la sarebbe cavata bene nel traffico, tra fortuna morale e ironia della sorte? De-costruiamo il traffico, socialmente, e ricostruiamo mezzi di trasporto più degni dell’uomo. Ricostruiamo un’immagine dell’uomo senz’auto. Voglio dire, come Totò: a prescindere.

L’auto è appunto un mezzo che diventa un fine, sintomo della complessità crescente e della crescente onnipotenza della tecnica. Ma di una tecnica che non si vuole davvero fino in fondo: che costava incominciare prima a pensare ad alternative, a badare agli impatti, a riflettere se auto e città sono davvero compatibili, dopo che l’auto ha reso la città superflua e dopo averla sfruttata come un limone? Allora, l’auto è la modernità incompiuta. L’auto è il progetto incompiuto del moderno: ha permesso la mobilità e quindi la crescita dell’autonomia, poi non ha mantenuto le promesse, ed infine ha incastrato letteralmente l’individuo ipermoderno “senza passioni” in un intrico di asfalto e lamiere da cui non può più uscire. Mai Geworfenes è stato più intricato in un Gestell. Ipertrofia di una dimensione della razionalità e insufficienza della stessa tecnologia con sacrificio della componente dialogica, riflessiva e deliberativa. Ha allevato la preferenza per l’adattamento, per la dipendenza, per la selbstverschuldete Unmundigkeit. Quando non ci sarà più l’auto nel traffico urbano, avremmo altri individui più capaci, mezzi più razionali [Latour], città ritornate in qualche punto polis, e l’urbanitas di questo panorama ricorderà con dolore e qualche nostalgia i tempi insocievoli della dipendenza dall’auto. Allora anche il movimento operaio sarà uscito dalle grandi fabbriche, avrà velato la statua di Ford nell’atrio confederale, ogni lavoro sarà un telelavoro perché teleconnesso [seguendo Castells], e i corpi umani finalmente riprenderanno a muoversi nello spazio-tempo a modo loro e proprio, una società di flaneur operosi e oziosi, mentre in cimiteri sotto la luna, all’esterno delle città in luoghi appartati, fuori dagli occhi dei bambini, verranno conservate a meri fini scientifici le reliquie di un mezzo di trasporto diventato mistica necessità, colossale imbroglio sociale, destino e regressione infinita. Volgiamo le spalle a tale strumento obsoleto della civiltà umana e camminiamo, slow foot.  La fine dell’auto non è la fine della storia, solo la fine di una fase della preistoria.

 Post-scriptum. Spero solo che il lettore abbia capito che abbiamo scherzato[6]: una demonologia semiseria per esorcizzare il male che siamo capaci di farci[7]. Come si fa a parlar male dell’auto, è come la mamma o la matrice della nostra antropologia quotidiana. Abbiamo solo cercato argomenti per una critica dell’auto ed invece abbiamo probabilmente solo fornito argomenti per costruire un’anticritica. La critica dell’auto è possibile del resto solo come metacritica della società, e chi se la sente oggi.

All’auto si torna sempre, anche i delusi e i frustrati tornano servizievoli e fedeli, a testa china, oberati dai costi, ostinati a farsi del male, se questo è quello che ci passa la socialità contemporanea. All’auto si torna sognando ad ogni aperti, pensando anche a cambiali o a prestiti, essendo la vita scandita dalla programmazione dell’acquisto e della rottamazione. Riti di passaggio di un essere evoluto fino a poter diventare il servomeccanismo del suo involucro mobile. Sotto l’auto di può finire, anche e soprattutto come pedoni. Sull’auto capita di andare, anche a chi ne farebbe a meno. L’auto, come altre droghe, è la coperta di Linus che ci permette di restare bambini, infantili. Conserviamo la componente di sogno dell’auto e proiettiamola su altri beni, su altri contesti, su altre interazioni. Ritorniamo bipedi implumi per ripensare seriamente la tecnologia adatta alla nostra evoluzione. La strada è lunga, ma l’auto non l’abbrevia. Come il capitalismo, anche l’auto  - suo emblema – è una malattia infantile dell’umanità. Passerà e passerà prima se intanto camminiamo. -


[1] Un timido passo, ispirato da Goffman, in A. Cattaneo, Sociologia del traffico, Meltemi, Roma 1998. Qualcosa si muove negli ultimi anni. Cfr.; J.P. Womack-D.T. Jones-D. Roos, La macchina che ha cambiato il mondo, Rizzoli Milano 1991; G. Dupuy, Automobile e città, Il Saggiatore, Milano 1997. Ora soprattutto i materiali del progetto Scene SusTechne (programma TSER della U.E.);  e J. Wickham, Public Transport and Urban citizenship, The Policy Institute, Dublino 2004. Rilevanti per ogni discorso sul nostro tema gli scritti di B. Latour e la sua opera citata più avanti in particolare. Interessanti materiali nei SATSU working papers, University of York: http://www.york.ac.uk/org/satsu/OnLinePapers/OnlinePapers.htm

[2] Vedere per esempio A. Gandolfi, Formicai, imperi, cervelli, Boringhieri, Torino 1999.

[3] Cfr. E. Pulcini, L’individuo senza passioni, Boringhieri Torino 2001.

[4] Per uno sforzo di estetizzare il traffico e di vedere il bello postmoderno dove c’è solo il brutto ipermoderno cfr. P.A. Cetica, Estetica del traffico, costa&nolan, Milano 2000.

[5] Sulla vicenda di soluzioni alternative e sulle loro condizioni di possibilità esemplare B. Latour, Aramis, ou l’amour des techniques, Editions de la découverte, Paris 1993. Per suggestioni rilevanti per il nostro discorso vedere anche il suo Non siamo mai stati moderni, elèuthera, Milano 1995.

[6] Per un’analisi dell’auto in termini di politiche pubbliche, cfr. Donolo, “Ri-regolare l’auto”, in L’intelligenza delle istituzioni, Feltrinelli, Milano 1997.  Per le basi analitiche di questa “ipercritica” del disordine automobilistico cfr. Disordine, Donzelli, Roma 2001. Sul governo possibile della città ipermoderna anche in rapporto ad esternalità e beni comuni cfr. “Notizie sul governo di Babilonia”, relazione al Convegno “Ripensare la città contemporanea”, Roma maggio 2004, in corso di pubblicazione. Sui problemi ecologici della mobilità in Italia cfr. ISSI, Un futuro sostenibile per l’Italia – rapporto ISSI 2002, Editori Riuniti, Roma 2002. Un’introduzione al tema: R. Danielis, I trasporti e l’ambiente, Giappicchelli, Torino 1996.

[7] Rinvio ovviamente a G. Viale, Tutti in taxi – demonologia dell’automobile, Feltrinelli, Milano 1996.

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