PRESENTAZIONE DEL RAPPORTO STIGLITZ

 A cura del  Comitato Scientifico della Fondazione Sviluppo Sostenibile

Roma, 1 marzo 2012

Scarica la traduzione in italiano aggiornata della I e della II parte  del Rapporto Stiglitz nel booklet elettronico preparato dalla Fondazione per lo  Sviluppo sostenibile  (pdf in italiano)

Scarica il file dell'intero Rapporto Stiglitz (pdf in lingua originale)

Vedi il filmato dell'intervento di Stiglitz alla Conferenza OECD "Better measures, better policies, better lives" a due anni dalla pubblicazione del Rapporto


Introduzione

Il Rapporto Stiglitz: una nuova concezione dello sviluppo  sostenibile, l'approccio “sustainable stocks” per l'economia,  la società e l'ambiente (di Toni Federico)

Dall'economia della produzione alla centralità delle condizioni  materiali di vita (di Claudio Massimo Cesaretti)

La qualità della vita e dei rapporti sociali come patrimonio di una  società  sostenibile (di Paolo degli Espinosa)

Il superamento del PIL attraverso l’integrazione delle misure di benessere attuale e della sostenibilità (di Andrea Barbabella)

 

Introduzione

La crisi economica che stiamo attraversando pone fine all’ultimo dei cicli dell’economia capitalistica, il cui inizio può essere fatto risalire alla fine della guerra fredda e alla caduta del muro (1989), caratterizzato dai consumi ipertrofici, dalla globalizzazione dei mercati, dalla finanziarizzazione, dalla piena sregolazione liberista e dal rilassamento del controllo delle amministrazioni centrali sull’economia. Con sorpresa la imponente strumentazione econometrica dei paesi industrializzati non ha avuto la capacità di anticipare la crisi ed ha sopravvalutato i parametri di una crescita avvelenata dalla speculazione, dal degrado dell’ambiente e del’esaurimento tendenziale delle risorse naturali. Non ultimo tra i leader della nuova generazione per sensibilità storico-politica, il Presidente Nicolas Sarkozy, l’uomo della “Grenelle”,  ha affidato ad una commissione di 25 grandi esperti come Arrow, Atkinson, Stern etc., governata da tre economisti di prima linea, Stiglitz, Sen e Fitoussi, la redazione di questo rapporto sul “Measurement of Economic Performance and Social Progress”. Non avremmo proposto alla lettura ed alla discussione della Fondazione questa opera di difficile lettura, se non avessimo constatato che si tratta di tutt’altro che di un rapporto specialistico, quanto piuttosto di una ripresa autorevole e promettente della concezione profonda dello sviluppo sostenibile.

Questo importante concetto, ipostatizzato ed anche troppo santificato dal pensiero internazionale democratico ed ambientalista, tende a perdere la scena ed a scivolare in un conformismo di maniera, che un poco richiama la sorte del concetto della  pace mondiale, trionfante nell’iconografia ufficiale di un mondo sempre afflitto da conflitti e guerre. Così lo sviluppo sostenibile alla fine del secolo XX pareva diventato una prerogativa dei paesi ricchi. Non vi è dubbio che i Principi di Rio e l’Agenda 21, veri documenti di transizione, abbiano implicitamente fatto perno sull’ipotesi di una espansione economica impetuosa e generalizzata per tutti, compatibile con livelli di consumo da taluni dichiarati “non negoziabili” (Bush a Rio, Powell a Johannesburg), capace di descrivere una perfetta curva di Kuznets e risolvere con la crescita tutti i problemi sociali ed ambientali. Le crisi economica e climatica sono contestualmente il punto di arrivo di quella illusione.

La lettura del rapporto Stiglitz non potrà rispondere a tutti gli interrogativi. Tuttavia ci sembra importante il tentativo di (ri)stabilire quale sia la ricchezza del mondo che dobbiamo preservare e consegnare alle generazioni sopravvenienti. Il messaggio centrale del rapporto è che il tempo è maturo per spostare l’attenzione dalla produzione delle merci al benessere delle persone, posto in un contesto di sostenibilità. Sappiamo tutto sulla produzione, molto meno sul benessere. Abbiamo constatato che la crescita della produzione nei paesi affluenti, ad un certo punto, si è distaccata dalla percezione individuale e collettiva di benessere. Quest’ultimo ha realmente imboccato una fase di declino, come innumerevoli studi hanno ormai accertato. Si tratta, questa è una vera novità, di combinare una valutazione più realistica dei fattori economici del benessere con i fattori non market della qualità della vita individuale e sociale, sulla quale incidono gravemente le forti disparità di reddito e di accesso alle risorse, il degrado dell’ambiente con le insidie alla salute che esso determina, la perdita dei livelli dell’occupazione, l’insicurezza sociale, il distacco dalla politica, la grave compromissione dei rapporti interpersonali causata dall’abbandono di modelli storici solidaristici, per quanto imperfetti e localistici, in favore di modelli consumistici che abbisognano di culture basate sulla  competizione.

Il Rapporto dà un contributo importante alla definizione dei cespiti della ricchezza “estesa” ed ai percorsi della sostenibilità cui si chiede di sorvegliarne la qualità dello sviluppo, la conservazione nel tempo ed il trasferimento della ricchezza alle generazioni future.

 

Il Rapporto Stiglitz: una nuova concezione dello sviluppo  sostenibile, l'approccio “sustainable stocks” per l'economia,  la società e l'ambiente

di Toni Federico

Il Rapporto Stiglitz è composto in tre livelli verticali, benessere, qualità della vita e sostenibilità, che innovano la tradizionale tripartizione dello sviluppo sostenibile di Rio in economia, società ed ambiente. Tre sono anche i livelli orizzontali del Rapporto che presenta un sommario per gli operatori politici, una esposizione preliminare dei contenuti ed infine il testo completo degli approfondimenti. All’ambiente ed allo sviluppo sostenibile (SD) il Rapporto riserva il terzo dei capitoli nei livelli secondo e terzo. Nella nostra presentazione invece va da sé che tenteremo di usare la visione della sostenibilità per inquadrare l’intera materia dello sviluppo.

A partire dal rapporto Brundtland la nozione di SD si è estesa fino a comprendere tutte le dimensioni dello sviluppo economico, sociale ed ambientale presenti e future. La prospettiva della sostenibilità si può così esprimere: “Supponendo di essere capaci di stabilire quale sia il livello attuale del benessere, la questione è se il trend presente dello sviluppo può continuare nel futuro”. Non è più quindi solo una questione di buona gestione del presente ma di capacità di anticipare il futuro. Gran parte degli approcci correnti fallisce nel dare una distinzione chiara tra benessere attuale e sostenibilità, categoria quest’ultima che deve essere trattata separatamente.

Il benessere delle future generazioni rispetto al nostro dipende dalle risorse che conferiremo loro, dalle dimensione degli stock di risorse esauribili e dal modo nel quale riusciamo a conservare in quantità e qualità tutte le altre risorse naturali rinnovabili necessarie per la vita. Dal punto di vista economico tale benessere dipende dall’importo trasferito del capitale fisico, macchine ed infrastrutture, e dagli investimenti in capitale umano, quindi essenzialmente in istruzione e ricerca. Dal punto di vista sociale esso dipende dalla qualità delle istituzioni e della cultura che lasceremo loro in eredità, un tipo di capitale indispensabile per il corretto funzionamento della società umana e per assicurarne il progresso.

L’approccio alla sostenibilità non può che essere pragmatico e deve saper combinare un insieme di dispositivi atti a controllare lo stato fisico dell’ambiente e il miglioramento della qualità della vita e della società, con un nuovo tipo di strumenti monetari capaci di dare segnali attendibili in materia di sostenibilità economica.

Il Rapporto propone di utilizzare a tale fine il livello netto degli investimenti, per mettere sotto controllo lo stock della ricchezza economica, piuttosto che il flusso dei redditi o dei consumi. La sostenibilità richiede un approccio simile anche per tutti gli altri settori sociali ed ambientali, per mantenere costanti o crescenti gli stock di quella che possiamo chiamare “ricchezza estesa”, costituita dalle risorse naturali e dai servizi ecosistemici, quelli indicate da documenti come il Millennium Ecosystem Assessment, (ONU, 2005), dal capitale  fisico, produttivo, umano e sociale.

La sostenibilità è definita come “la capacità di assicurare alle generazioni future standard di benessere almeno pari ai nostri attuali mediante il trasferimento a loro di un adeguato ammontare degli asset da cui tale benessere dipende”. Posto pari a W l’importo di questo extended wealth e calcolando l’attuale trend del cambiamento di tutte le componenti di W, dW, esso deve essere non decrescente in tutte le diverse componenti. Ove il trend sia negativo, occorre predisporre interventi correttivi per abbassare il livello dei consumi e aumentare il livello degli investimenti.

Se le risorse fossero idealmente commerciate su un mercato senza imperfezioni, capace cioè di tenere nel conto con appropriati tassi di sconto il loro impatto sul benessere futuro, il valore di ogni risorsa potrebbe essere tenuto sotto controllo mediante investimenti pari alla eventuale perdita del valore monetario dello stock. Gran parte degli asset non sono affatto commerciati. Quelli che lo sono, a causa  delle imperfezioni del mercato, delle incertezze e delle miopie, è poco probabile che abbiano prezzi che riflettono completamente il loro ruolo nell’economia futura.

Il controllo della sostenibilità va in questi casi gestito mediante le variabili fisiche, ecologiche e sociali. Il livello degli investimenti per la compensazione delle perdite (dW negativi) non va calcolato ai prezzi di mercato, ma mediante la determinazione dinamica ed adattativa di prezzi ombra (shadow prices) valutati con modelli oggettivi ecologico-economici, capaci di stabilire ragionevolmente in che misura quelle perdite, non adeguatamente compensate dagli investimenti in capitale fisico ed umano,  condizionerebbero il benessere futuro. Benché i cespiti della ricchezza estesa debbano essere controllati separatamente, approccio che porta gli autori verso il concetto di sostenibilità forte, la valutazione degli investimenti dovrà tenere nel dovuto conto l’interazione tra i processi sulla scena, evidente ai nostri occhi, ma raramente facile da quantificare.

Questa visione dello sviluppo sostenibile è ritenuta nella proposta la migliore per mandare “avvisi” ai paesi i cui percorsi sono al di sotto dei livelli della sostenibilità per effetto di insufficienti investimenti, insufficiente innovazione del proprio capitale o insufficiente capacitazione delle proprie risorse umane.

La variazione annuale di questi stock, fattori della ricchezza necessari per conferire alle future generazioni opportunità pari alle nostre, è determinata dal livello degli investimenti netti. Essi devono:

q      compensare la perdita di valore del capitale fisico, macchine e strutture;

q      sostenere la implementazione del capitale umano mediante gli investimenti nella formazione (education) e nella ricerca scientifica e tecnologica;

q      compensare il degrado delle risorse naturali, impoverite dalle estrazioni minerarie, dai raccolti agricoli, dallo sfruttamento degli stock alimentari e dalle pressioni antropogeniche sulle matrici ambientali;

q      in particolare compensare il danno ambientale causato dalle emissioni GHG.

Valori negativi dell’investimento netto comportano il declino della ricchezza estesa e la non sostenibilità del percorso. Sfortunatamente la determinazione degli investimenti per la conservazione del patrimonio naturale è resa difficile  dalla arbitrarietà della fissazione dei prezzi. I prezzi di mercato per valutare stock e flussi sono affidabili solo nel caso che il mercato sia perfetto, impensabile nella materia ambientale dove ci sono esternalità ed incertezze dappertutto. Nel passato recente i prezzi dei fossili e dei minerali non hanno fatto altro che fluttuare. I prezzi del carbonio che si sono determinati sul nuovo mercato ETS/CDM non sono per ora in grado di determinare un sostegno decisivo agli investimenti  necessari per il  clima.

La sostenibilità è materia di equilibri internazionali. Sul piano nazionale la determinazione degli investimenti è controversa. I paesi esportatori di petrolio e gas non possono certo recuperare dai prezzi di vendita risorse adeguate per predisporre i necessari sostituti energetici. I paesi sviluppati che le acquistano a prezzi sottodimensionati, più ricchi di capitale umano e tecnologia,  possono non preoccuparsi della insostenibilità dei propri consumi e possono tenere bassi gli investimenti. Ciò equivale ad esportare nei paesi produttori i costi a lungo termine dell’esaurimento delle risorse, quindi la insostenibilità.

La equivalenza tra la sostenibilità e l’invarianza dW=0 può essere operativa solo a due difficili condizioni, in chiaro contrasto con lo stato attuale delle cose:

q      che la dinamica ecologica futura sia perfettamente prevedibile;

q      che sia chiarito con esattezza l’impatto di questa dinamica sul futuro benessere.

Le prospettive dello sviluppo sono dominate dall’ignoranza e dall’incertezza, in particolare sull’interdipendenza delle sue tre componenti economica, sociale ed ambientale. L’incertezza assume molte forme, alcune gestibili con approcci probabilistici, molte del tutto ingestibili. I modelli e gli scenari ne risultano pesantemente condizionati, non solo nei parametri ma nelle stesse strutture concettuali. La lista degli stock da preservare può cambiare. Può cambiare la cognizione di quella che abbiamo chiamato ricchezza estesa.

Gli autori suggeriscono alcuni metodi da perseguire alla ricerca di possibili soluzioni:

q      il lavoro con gli scenari, come quelli sviluppati dallo IPCC, da Stern, dall’IEA etc.

q      determinare le fasce di confidenza delle variabili di sistema descritte dai vari modelli, come nel metodo adottato sistematicamente dallo IPCC;

q      ricalcolare i livelli di investimento mediante “test di stress” consistenti nella applicazione di forti shock esterni, positivi e negativi, sui prezzi e sui valori degli asset.

Il cambiamento climatico è il paradigma di tutte queste difficoltà. È ormai universalmente chiaro che il rischio climatico  potrà essere tenuto sotto controllo soltanto adottando valutazioni estreme (precauzionali) dello stato degli ecosistemi critici. Il punto è che non abbiamo una strumentazione scientifica e istituzionale adatta a quantificare ragionevolmente queste condizioni estreme e inserirle nel negoziato con qualche probabilità di successo. Il clima va quindi controllato ultimativamente osservando le variabili fisiche, temperature, concentrazioni etc. Resta il fatto che gli indici monetari hanno il vantaggio di parlare un linguaggio comprensibile a tutti e facilmente intercambiabile tra settori diversi, mentre le variabili fisiche, come la tonnellata di CO2 non sono semplici da capire e da gestire per i non addetti ai lavori.

Si pongono poi delicate questioni di visione e di concezioni giuridico-normative. Ci possono essere tante definizioni della ricchezza estesa quante sono le opinioni a proposito di quello che deve essere il patrimonio da conservare e quali devono erssere i valori ad esso associati. Si potrebbe tentare di affrontare empiricamente il problema, cercando di ricavare la scala delle priorità dalla osservazione delle preferenze delle persone in materia di economia, ambiente e rapporti sociali. Non è però affatto certo che tali valutazioni siano informate, equilibrate e infine effettivamente utili per determinare i parametri del benessere e della qualità della vita delle generazioni a venire.

Rimane del tutto senza risposta il problema dell’equità distributiva, fondamentale per gli equilibri sociali e per la stessa percezione individuale del benessere. Non va dimenticato che la definizione di SD della Brundtland implica l’equità della distribuzione delle risorse all’interno della generazione attuale, non solo tra le generazioni. È molto diverso l’importo degli investimenti ove si ponga tra gli obiettivi guida del benessere ad esempio il reddito disponibile del 50% più povero della popolazione piuttosto che il valore totale medio. La giustizia distributiva (Sachs) è dunque essa stessa un asset sociale critico, attualmente una risorsa scarsa.

La stessa considerazione va fatta per l’equità dell’accesso alle risorse naturali, posto che, come abbiamo visto, i loro prezzi di mercato sono sistematicamente sottostimati. In questo modo la insostenibilità prodotta nei paesi consumatori, nella media paesi con dotazioni alte di capitali finanziari, fisici e umani, viene scaricata sui paesi produttori, incapaci di remunerare con i prezzi gli investimenti necessari per conservare i loro asset naturali. I paesi poveri finanziano così i paesi affluenti. La spirale porta ineluttabilmente il pianeta all’instabilità.

 

Dall'economia della produzione alla centralità delle condizioni
materiali di vita

di Claudio Massimo Cesaretti

Il mandato della Commissione, che comportava la ridefinizione degli strumenti di misurazione delle performance dell’economia e del progresso sociale, ha dato luogo ad una riflessione sulla necessità di un significativo cambiamento dei paradigmi dell’economia e dei valori sociali. I primi attualmente fondati su una visione dell’individuo prevalentemente ancorata al consumo di beni materiali, i secondi ridotti ad una egoistica presenza dell’individuo in un corpo sociale privo di relazioni.

Il Rapporto colloca l’individuo e il soddisfacimento dei suoi bisogni al centro dell’attenzione, proponendo il benessere – quale risultato di standard di vita materiali e immateriali e di relazioni sociali ampie e articolate – come misura insieme dell’economia e della qualità della vita. Propone, in altri termini, il superamento della concezione utilitaristica del benessere, che, misurando i comportamenti dell’individuo come meccanica relazione tra scopi e mezzi scarsi disponibili per usi alternativi, fa dell’economia una scienza positiva libera da giudizi di valore.

A partire da queste premesse il Rapporto avverte che il PIL (o GDP), il principale indicatore economico comunemente in uso a livello internazionale, offre una rappresentazione dell’economia parziale e fuorviante. Parziale perché misura la sola produzione di mercato, quella cioè oggetto di scambio, trascurando il valore dei beni e servizi che non hanno prezzo. Fuorviante perché le imperfezioni del mercato impediscono ai prezzi di svolgere correttamente la funzione di unità di conto.

Va aggiunto che il PIL è una misura grossolana della stessa produzione di mercato perché non tiene conto del consumo dei beni capitali, che rappresentano un costo. Esclude pertanto anche il consumo di quella parte limitata dello stock di capitale naturale che ha un prezzo, come le materie prime e le foreste.

La prevalente preoccupazione per le quantità prodotte impedisce al PIL di considerare anche la qualità dei beni e servizi immessi sul mercato, che nelle società più avanzate e complesse costituisce un importante aspetto della misura del reddito e dei consumi reali da cui dipende il livello materiale di vita. E’ questo il caso, ad esempio, dei servizi informatici e delle tecnologie di comunicazione.

La erogazione da parte dello stato e delle pubbliche amministrazione di servizi, in particolare dei servizi di natura individuale, quali principalmente la sanità e l’istruzione, ha raggiunto in molti paesi livelli significativi che hanno una  sensibile influenza sugli standard di vita. Il PIL misura il valore di questi servizi in termini di costo ai prezzi di mercato, quale ad esempio il costo del personale medico, piuttosto che in termini di risultati ottenuti, come il numero di trattamenti effettuati e il tipo di malattie curate e la qualità delle prestazioni. Queste e numerose altre critiche cui è sottoposto il PIL come indicatore delle performance dell’economia e soprattutto come indicatore del benessere mostrano che la sua funzione rappresentativa si è esaurita. Essa è fondata sull’assunto che l’incremento fisico della produzione si traduce meccanicamente nell’incremento dei consumi e quindi del benessere materiale. Tale assunto è discutibile in sé a causa delle disuguaglianze distributive, che come è ben noto approfondiscono anziché ridurre il reddito e la capacità di consumo dei diversi gruppi sociali, ma soprattutto è messo in discussione dai limiti imposti alla crescita dei consumi dalla finitezza delle risorse e dal crescente degrado ambientale.

Il Rapporto propone di passare dalla rappresentazione dell’economia come processo di cui si misurano gli esiti in termini di produzione ad una rappresentazione centrata sugli standard materiali di vita, sulla loro sostenibilità e sull’insieme delle condizioni immateriali che concorrono a determinare con i primi il benessere dell’individuo e il progresso della società. Il superamento del PIL presenta non poche difficoltà.  La forza del PIL, paradossalmente, risiede nei suoi limiti: l’adozione dei prezzi e del mercato come unico criterio di misurazione oggettivo, condiviso e comprensibile. Il Rapporto non sottovaluta questi limiti e affronta l’inadeguatezza del PIL in due principali modi: da una parte integrando le informazioni fornite dalla contabilità economica sui principali aggregati, reddito, consumi, investimenti, e costruendo, dove necessario, nuovi indicatori in grado di rispondere più compiutamente alla misurazione del benessere; dall’altra attribuendo un valore, attraverso opportune stime, a specifici aspetti del processo economico che influiscono direttamente o indirettamente sul benessere, ma non hanno mercato, come i servizi forniti dalle famiglie. Le indicazioni che emergono dal Rapporto su questa complessa materia sono articolate e fondate su argomentazioni condivisibili. E’ utile richiamare i principali ambiti tematici trattati.

Il primo interessa la valutazione del deprezzamento del capitale fisico e, dove possibile, del capitale naturale, per  pervenire ad una misura del PIN  (prodotto interno netto), che dà una rappresentazione più adeguata del reddito e quindi del benessere materiale. Il costo del rinnovo dei beni capitale può tradursi infatti in andamenti divergenti tra PIL e PIN, verificandosi talora che ad un incremento dell’uno corrisponda un decremento dell’altro.

Il secondo riguarda la misurazione  dei servizi, in particolare di quelli offerti dalla pubblica amministrazione, attualmente computati al costo dei fattori anziché al valore della produzione, che incorpora la produttività dei servizi stessi. Per i servizi sanitari e ed educativi occorre pertanto fare riferimento allo stato di salute e al livello di istruzione della popolazione piuttosto che  al numero dei pazienti trattati e al numero degli studenti. In materia viene osservato che molte spese per servizi alla collettività, quali la difesa e la sicurezza, assimilabili a spese di funzionamento della società, dovrebbero essere considerate consumi intermedi e non consumi finali, che si traducono in un incremento dei consumi delle famiglie.

Un altro importante ambito cui applicare nuovi criteri  di misurazione del reddito, dei consumi e della ricchezza patrimoniale attiene alle relazioni intercorrenti tra questi aggregati. Il reddito è una componente significativa degli standard di vita in quanto da esso dipende il livello dei consumi. Il reddito cui fare riferimento per evidenziare la relazione con i consumi va depurato dai trasferimenti allo stato sotto forma di prelievo fiscale e deve comprendere i trasferimenti dello stato sotto forma di servizi; occorre in altri termini pervenire ad una misura del reddito effettivamente disponibile. Ai fini del benessere, la relazione tra questo e la capacità di consumo nel tempo è tuttavia anche funzione della ricchezza patrimoniale. Reddito e consumi non presentano infatti andamenti necessariamente analoghi. A parità di reddito i consumi possono crescere a danno dello stato patrimoniale o con l’indebitamento, così come possono diminuire a vantaggio del risparmio o del patrimonio. Il giudizio sugli standard di vita deve dunque tener conto di tutti e tre gli aggregati e delle loro relazioni; e assume pieno significato solo in presenza di una valutazione degli aspetti distributivi del reddito, dei consumi e della ricchezza. L’incremento dei prezzi riferito ad un paniere medio di beni ha effetti diversi sui consumi delle famiglie in funzione del peso dei singoli beni, a sua volta dipendente dal livello di reddito.

Le misure per correggere i limiti della rappresentazione dell’economia fornita dalle attuali contabilità nazionali sono tratte prevalentemente dalla ampia strumentazione statistico-economica sviluppata di recente e utilizzata per scopi particolari: conti satellite, misurazioni campionarie, indici dei prezzi differenziati per gruppi sociali, inchieste sul tempo di lavoro e sul tempo libero e numerosi altri metodi di analisi volti ad approfondire la conoscenza puntuale di fenomeni e comportamenti economici. Il contributo originale del Rapporto sta nell’averle sistematizzate e finalizzate ad una nuova visione dell’economia centrata sul benessere dell’individuo e sul progresso della società, tracciando la strada per misurare con nuovi criteri la stessa sostenibilità.

 

La qualità della vita e dei rapporti sociali  

di Paolo degli Espinosa

Il Rapporto propone  una vera e propria rivoluzione nei criteri della sostenibilità, dell’economia, del benessere e apre una breccia nella cittadella del pensiero tradizionale dello sviluppo, bloccato sul valore dei beni e servizi prodotti e commercializzati.  La crisi non è solo economica e finanziaria e rischia di sottrarre prospettiva proprio ai paesi ricchi che, nella maturità  dello sviluppo, hanno affidato la funzione espansiva al consumo, supponendolo traente rispetto agli altri dati del benessere e della coesione sociale. Il flusso delle merci, ormai al limite, non potrà  più essere protagonista dello sviluppo. La crescita economica dei ceti medi e popolari si sposterà nei grandi  paesi asiatici e in altre zone  dinamiche del mondo. L’ Europa in particolare dovrà  valorizzare altri stock attingendo alle sue tradizioni  culturali e alle sue capacità  programmatorie e di  rapporto tra istituzioni, economia  e imprese.

Il Rapporto, se non offre una ricetta, non resta silenzioso e propone non solo un allargamento  della lista degli stock,  ma anzi un  vero e proprio shift  delle priorità dalla produzione delle merci al benessere delle persone, in un contesto di sostenibilità: è la produzione che deve servire alla condizione umana, non viceversa.  Chi voglia realizzare davvero questo cambiamento di scenario deve riconoscere e superare diverse difficoltà, anche culturali, visto che si parte da una società attrezzata, dai vertici alla base, su priorità di produzione e consumo di merci. Sul benessere si sa viceversa ancora poco. Vale la pena, quindi, di fare i conti in profondità con il  carattere un pò sfuggente e soggettivo di questo valore. Il compito non è facile, anche  perché bisogna ragionare ad occhi aperti, evitare lo spreco di risorse, come può avvenire se al contempo non si persegue l’aumento dei valori immateriali e  relazionali. Difficoltà, approfondimenti, domande su  cosa sia, come si misuri, come  si  possa aumentare  il benessere e  su  chi provveda  ad accrescerlo, fanno parte integrante del nuovo impegno. Il Rapporto, a tale proposito, distingue  tra le valutazioni soggettive  e quelle oggettive.

L’impostazione soggettiva si richiama alla ricerca psicologica e ad una lunga tradizione filosofica, per cui gli individui sono i migliori giudici della loro stessa condizione. L’approccio, storicamente utilitarista, riveste  un interesse  ben più ampio, in quanto l’esigenza di mettere la gente  in condizione di essere soddisfatta della sua vita  si profila  come  uno scopo universale della esistenza umana. Il benessere è in gran parte uno stato cognitivo,  per cui si richiedono anche nuove capacità professionali: la recente collaborazione tra psicologi ed economisti ha messo in evidenza  difficoltà  consistenti. L’esperienza dimostra, ad esempio, che la disoccupazione colpisce il soggetto nella vita quotidiana e nell’autostima ben al di là del danno economico. Mancano qui i termini  oggettivi di  confronto, p.es. rispetto al caso dell’ inflazione, in cui è possibile confrontare i due diversi dati  dell’inflazione effettiva e percepita. L’impegno ha comunque già dato alcuni frutti in termini di auto-valutazione che il soggetto fa tenendo conto della condizione familiare, del lavoro, delle risorse finanziarie e di altro, e il panorama dei sentimenti e delle emozioni, positive e negative, come pena, preoccupazione, collera, piacere, amor proprio e rispetto. Come pervenire  al successivo giudizio aggregato,  è questione che  però resta aperta.

In un terreno così vario ed incerto è evidente la difficoltà di confrontare gli aspetti soggettivi del benessere tra i diversi paesi, una difficoltà che si attenua,  per paesi  con lo stesso tipo di sviluppo. A livello di statistiche nazionali la realtà è che si dispone ancora di pochi dati e di pochi studi che possano dare informazioni sull’importanza relativa dei vari fattori in gioco.

I principali approcci di tipo oggettivo, nel Rapporto, sono la capacitazione e la buona allocazione: si concepisce la vita di una persona come una combinazione di vari aspetti relativi  al  “fare ed essere” (doings and beings), tenendo conto della libertà di scegliere (capability) tra questi funzionamenti. Alcune capability sono elementari, come la  capacità di alimentarsi,  altre sono più complesse, come la disponibilità delle conoscenze necessarie per partecipare  alla vita politica. L’attenzione è rivolta  alla capacità  dell’individuo di perseguire e realizzare gli obiettivi che si pone. Si rifiuta, perché irrealistico, il modello dell’individuo che massimizza solo il suo stesso interesse, non curandosi di relazioni ed emozioni,  e si dà  peso alla complementarità tra capacità diverse, alla differenza tra i vari  esseri umani e al ruolo dei principi etici.

L’altro approccio oggettivo, legato alla tradizione economica, è basato sull’idea che a ciascuna dimensione non monetaria della qualità della vita possa  essere attribuito un peso personalizzato.  Si  evita  così  la trappola di basare le valutazioni su una disponibilità media a pagare per qualcosa,  ben sapendo che  non potrebbe  essere rappresentativa delle  differenze  e ineguaglianze  presenti nella società. Emergono  aspetti universalmente condivisi: istruzione, attività personali, voce politica, connessioni sociali, condizioni ambientali, insicurezza personale ed economica.

Le attività personali e le connessioni sociali, in gran parte indipendenti dai guadagni, vanno valutate in termini  sia di  grado di piacevolezza (hedonic) che  di giudizi di valore. Il Rapporto  confronta al proposito tra Stati Uniti e Francia la percentuale del tempo dedicato a ciascuna attività: si passeggia di più in Francia, si gioca e si prega di più negli Stati Uniti, si fanno più conversazioni (non di lavoro)  in Francia. Per entrambi è intorno al 22% il tempo dedicato al lavoro, agli spostamenti (2%), alla TV (6-7%). Il tempo per preparare da mangiare è poco diverso, intorno  al 7%. Il tempo per  altri lavori di casa è  pari al 16% in Francia e al 12% negli Stati Uniti.

È invece soggettivo il valore attribuito dai soggetti alle varie attività. Il più basso, sia in Francia che negli  Stati Uniti,  è attribuito al lavoro e allo spostamento per lavoro.  È evidente, in ambedue i casi, l’importanza dell’insieme dei lavori domestici non pagati, come lo shopping, la preparazione del cibo, la cura dei bambini, ecc., per i quali occorre individuare la distribuzione tra uomini e donne. Una lunga tradizione di ricerca collega la qualità della vita con il tempo libero. Servono, in proposito, indicatori di quantità, ma anche di qualità, e occorrono  nuove indagini capaci di fornire informazioni sia sulla quantità del tempo impegnato nelle varie attività, sia dei sentimenti che producono. 

Le attività personali e le relazioni sociali presentano una forte correlazione con la qualità della vita. Le persone che hanno più relazioni sociali hanno  anche  valutazioni più elevate della loro vita, dato che la maggior parte delle attività piacevoli richiedono socialità. I benefici delle social connections, che nel loro  insieme danno luogo al capitale sociale, si estendono dalla salute alla probabilità di trovare lavoro,  come anche ai caratteri del territorio (presenza o meno di crimini, performance della scuola locale, ecc.). Le connessioni sociali, d’altra parte, non sono sempre positive: l’appartenenza  ad un gruppo può portare ad un senso d’identità personale che si lega  però ad un clima di violenza e di competizione con altri gruppi. Ad esempio, i  programmi, sia pubblici che privati, di assicurazione e di sicurezza sociale,   potrebbero ridurre il senso individuale della solidarietà.

La ricerca sulle relazioni sociali si è basata tradizionalmente su misurazioni di prossimità,  basate sui dati di  partecipazione degli individui alle associazioni o di frequenza di attività altruistiche o di attività politica. Oltrepassando le accennate misure  tradizionali, sono state  effettuate in paesi di lingua anglosassone alcune indagini statistiche innovative, richiedendo agli individui informazioni dirette sul loro impegno civico e politico, sul lavoro volontario in diverse organizzazioni, sulle relazioni di vicinato  e con i membri della famiglia e sul modo in cui ottengono informazioni e notizie. Occorre andare anche oltre, arrivando a  misurare  altre connessioni sociali come la fiducia negli altri, il problema dell’isolamento sociale, la disponibilità di aiuto informale in caso di bisogno, l’impegno sul posto di lavoro e nelle attività religiose, l’amicizia  che  oltrepassi le differenza di razza, di religione e di livello sociale. Una possibilità consiste nell’innestare l’impegno del Rapporto nelle attuali politiche di sostenibilità locali, a cominciare da casi pilota, in cui si promuovano e si effettuino monitoraggi su comportamenti rivolti sia ai benefici ambientali che al benessere.

 

 Il superamento del PIL attraverso l’integrazione delle misure di benessere attuale e la sostenibilità

di Andrea Barbabella

Le critiche al PIL come strumento di misura del benessere (e in particolare delle sue variazioni) sono vecchie quanto il PIL stesso, essendo stato il suo stesso ideatore, il Nobel per l’economia Simon Kuznets, il primo a non ritenerlo idoneo a tale scopo. Negli ultimi tempi si sono moltiplicate proposte di approcci alternativi, anche se nessuna ha raggiunto un consenso adeguato a livello internazionale. Il Rapporto, che si inserisce a pieno titolo in questo filone,  non si può quindi dire una novità assoluta, ma evidenzia in maniera autorevole alcune importanti caratteristiche che una misurazione del benessere deve possedere, introducendo al tempo stesso importanti elementi di innovazione.

In premessa gli autori illustrano le motivazioni che hanno portato alla realizzazione del lavoro, sottolineando l’importanza di dotarsi di strumenti di misurazione affidabili: “What we measure affect what we do” richiama molto da vicino la più celebre affermazione “If we could first know where we are, and whither we are tending, we could better judge what to do, and how to do it”. Se il legame tra la capacità di governare e la capacità di misurare determinati fenomeni economici e sociali è oramai consolidato, non può dirsi altrettanto condiviso il passaggio successivo descritto nel rapporto: “Spesso sembra esserci una grande distanza tra le misure comunemente usate per il benessere … e la percezione diffusa. … Questo gap ha sostanzialmente minato la confidenza nelle statistiche ufficiali”

Non è da sottovalutare questa affermazione che ha ricadute dirette sulla proposta metodologica del Rapporto: nella complessa società della conoscenza una scarsa confidenza nelle informazioni circa l’andamento delle principali variabili economiche e sociali (ma anche ambientali) può tradursi in un allentamento dello stesso processo di rappresentanza democratica. All’origine del gap tra misure statistiche e percezione diffusa il rapporto individua una serie di fattori, a cominciare da difetti di costruzione e popolamento degli indicatori, passando per la presenza di nuovi fenomeni emergenti (traffico, inquinamento atmosferico) per giungere ad una cattiva comunicazione. All’origine del gap vengono indicate anche le crescenti disuguaglianze: gli indicatori sono costruiti in genere su un dato medio, e contribuiscono pertanto ad alimentare la distanza tra misurato e percepito nei casi in cui una fascia crescente della popolazione presenti per lo stesso indicatore valori molto distanti dalla media. Va inoltre notato come generalmente le misure alternative al PIL tendano a ridimensionare, a volte anche drasticamente, la reale crescita del benessere come mettono bene in evidenza il Genuine Progress Indicator  americano o il Living Condition Index olandese.

La prima novità introdotta dal Rapporto riguarda il quadro di riferimento, che, similmente agli approcci di altri autori come Prescott-Allen,  possiamo definire a due dimensioni. Il centro del ragionamento, il benessere, è  analizzato da due punti di vista, che non sono però riconducibili al più tradizionale dualismo tra il benessere socio-economico o umano da un lato, e benessere ecosistemico o dell’ambiente dall’altro; piuttosto, secondo quanto affermano gli stessi autori: “il Rapporto distingue tra la valutazione del benessere corrente e la valutazione della sostenibilità, se cioè tale benessere possa durare nel tempo”. All’interno di queste due dimensioni i domini classici della sostenibilità, economia-società-ambiente, sono pienamente ricomposti.

Il Rapporto articola in due capitoli distinti la critica della modalità corrente di rappresentazione del benessere.

Il primo capitolo prende spunto dalla critica al PIL e delinea una misura monetaria alternativa, giungendo alla proposta di sostituire - o affiancare - alle più classiche misure di produzione e di consumo, una misura modificata del reddito globale (Adjusted disposable household income including housework and leisure) come discusso da  Cesaretti. Ne scaturiscono alcune considerazioni generali, tra cui il ruolo centrale, accennato in precedenza, attribuito alla distribuzione degli elementi del benessere, in nome della quale si propone l’abbandono, o comunque il ridimensionamento, degli aggregati medi nazionali come il PIL in favore di misure più incentrate sui nuclei familiari (o sulle unità di consumo, o sull’individuo), livelli questi considerati più idonei all’analisi delle diseguaglianze. Un’altra importante considerazione deriva dalla inclusione nel reddito totale del lavoro non pagato e, soprattutto, del tempo libero. Gli autori evidenziano come, in questo modo, si rompa definitivamente il legame diretto tra la capacità di acquisto, il consumo di beni materiali e il benessere. Questo passaggio consente di legare, in modo convincente, il dominio del benessere attuale con quello della sostenibilità, o, per dirla con le parole degli stessi autori: “Questo [passaggio] è di particolare importanza perché il mondo comincia a prendere in considerazione i limiti di natura ambientale”.

Il secondo capitolo del Rapporto prende spunto dalla constatazione che, per quanto integrati e migliorati, gli aggregati economici non riescono a rappresentare adeguatamente tutti gli elementi del benessere umano: “Le misure convenzionali del reddito, della ricchezza e del consumo non sono sufficienti per definire il benessere umano. Devono essere accompagnate da elementi non monetari che rappresentano la qualità della vita”. Su tutti, dal capitolo emerge l’importanza crescente attribuita all’individuo, già evidente nella analisi sul PIL. La necessità di quotare il punto di vista dell’individuo da un lato, unita allo sforzo di colmare il citato gap tra misure statistiche e percezioni dall’altro, spinge gli autori ad integrare in modo inedito misure oggettive, principalmente ispirate all’approccio delle capacitazioni e dei funzionamenti di Amartya Sen, con misure soggettive del benessere, per le quali si comincerebbe a disporre di dati sufficienti. In questo contesto viene sottolineata la necessità di un pieno coinvolgimento degli enti ufficiali di statistica, ai quali è richiesto un importante sforzo di adeguamento alle necessità della misurazione del benessere e della sostenibilità.

Nell’ambito della seconda dimensione del benessere, quella della sostenibilità, l’approccio proposto è se possibile ancora più impegnativo della stessa introduzione della dimensione della qualità della vita, a fronte della moltitudine di approcci e metodologie oggi disponibile. Secondo gli autori “la quantificazione della sostenibilità non può prescindere da una esplicita prefigurazione delle traiettorie economiche e ambientali future”: ciò richiede la valutazione degli impatti degli attuali livelli di consumi e investimenti sugli stock umano, sociale, economico ed ambientale. Questa impostazione pone una serie di questioni rilevanti, strettamente interconnesse con i temi trattati in precedenza, a cominciare dal carattere evolutivo e multidimensionale del benessere. La dimensione della sostenibilità si lega a quella del benessere in funzione della definizione di quali debbano essere gli elementi del benessere da preservare: tuttavia il consenso su quali di essi debbano essere tramandati alle future generazioni non è scontato. A questo aspetto è legato quello della individuazione di target o soglie, che caratterizza il tradizionale approccio ISSI.

Anche la moltitudine e l’eterogeneità degli elementi che costituiscono il benessere richiede alcuni ulteriori approfondimenti. Nel Rapporto l’approccio di sostenibilità forte sembrerebbe imporre una strategia di tutela diretta su ogni singolo elemento. Più volte però si richiama l’importanza delle interazioni tra diversi fattori, e come diverse combinazioni degli stessi possano dare vita a livelli paragonabili di benessere. C’è infine la questione della opportunità di produrre un indicatore aggregato che possa competere, da un punto di vista strettamente comunicativo, con un indice unico come il PIL, senza perdere di vista tutti gli elementi del benessere. Su questo il Rapporto insiste spesso, anche se alla fine la soluzione proposta appare piuttosto interlocutoria, adombrando la prospettiva di produrre un ibrido tra un indice economico unico e una lista sintetica di indicatori fisici più o meno aggregati.

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