CONVEGNO DI STUDI

"ECOLOGIA COME SECONDA MODERNITà"

Campidoglio, Sala Gonzaga, Piazza della Consolazione

Roma, 2 aprile 2004

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ECOLOGIA COME SECONDA MODERNITà

di Edo Ronchi, 2004 

1.      Massima espansione e crisi della modernità industriale

All’inizio di questo secolo viviamo un apparente paradosso: la coincidenza fra il livello più elevato raggiunto dalla modernità industriale, con la sua globalizzazione, e la sua crisi. La scienza e la tecnologia applicate alla produzione, con la combinazione di informatica e ingegneria genetica, sono giunte al livello massimo del dominio sulla natura, con la possibilità di creare di una “seconda natura” artificiale.

Il motore della modernità industriale, il consumismo, con la globalizzazione del commercio mondiale e con la trasformazione del consumo in modello culturale, in status symbol, ha avuto un’espansione senza precedenti. La popolazione mondiale più che in classi sociali è divisa in classi di consumo: la classe globale che ha raggiunto un elevato livello di consumismo e ritiene di poterlo mantenere a lungo, una classe intermedia fatta da chi ha raggiunto un certo livello di consumo ma può ancora perderlo ed anche da chi non lo ha raggiunto ma punta a raggiungerlo ed una classe di esclusi dal consumo. Questa stratificazione che identifica il benessere con un livello dei consumi in continua crescita, promuove, come la carota davanti all’asino, una corsa al consumismo potenzialmente illimitata che nessun Pianeta finito e nessuna economia potranno mai sostenere a lungo termine.

Il modello della modernizzazione industrialista ha avuto una tale penetrazione culturale da delineare un vero e proprio pensiero unico globale, alimentato da un sistema mondiale di comunicazione, informatico e televisivo, in grado di connettere l’intero Pianeta. La potenza politica e militare degli Stati Uniti ha raggiunto un livello talmente elevato da far impallidire quello dell’impero britannico, che aveva caratterizzato la prima fase dell’industrializzazione, e da fornire un inedito supporto all’egemonia mondiale di tale modello: quella di un impero globale unico. Anche la rete del tessuto industriale e finanziario non è mai stata così estesa e così forte: un ristretto numero di società transnazionali domina quote rilevanti del mercato mondiale con fatturati superiori al PIL di molti Stati ed i capitali si spostano, praticamente in tempo reale, in un mercato finanziario globale. Mentre il ruolo degli Stati nazionali viene strutturalmente indebolito, stentano a decollare regole ed istituzioni internazionali operative ed efficaci, cosicché il capitalismo può operare su scala globale con poche regole e nessuna reale possibilità di efficaci controlli. “Il modo di vita euro-americano, che trionfa sul Pianeta, è la prima cultura globale incontrata dalla storia. Ma questo successo strepitoso non manifesta emozioni. Sembra senz’anima, come la tecnica che cavalca”. (L. Zoja, “Crescita e colpa”, Anabasi, 1993). Come mai? Nella fase della sua massima espansione la modernità industrialista non solo non ci emoziona, ma è in crisi?

1,2 miliardi di persone vivono con meno di due dollari al giorno, con poche possibilità di scelta, condannate a vite soggette a paure, malattie, analfabetismo, disoccupazione e mancanza di speranza. Ogni anno nei Paesi in via di sviluppo muoiono circa 11 milioni di bambini al di sotto dei cinque anni di età. Il 70 per cento circa di queste morti è causato da malattie diarroiche, da infezione dell’apparato respiratorio, da malaria, morbillo o malnutrizione.

La concentrazione nell’atmosfera di anidride carbonica, il principale gas serra che causa cambiamenti climatici, ha superato 380 parti per milione in volume e continua a crescere: il livello precedente alla rivoluzione industriale era di circa 270 parti per milione in volume. La gran parte dei ghiacciai si sta ritirando, l’estensione e lo spessore del ghiaccio del mare Artico stanno diminuendo. Ogni anno circa 46 milioni di persone è vittima di inondazioni. La desertificazione colpisce circa un quarto dei terreni del Pianeta e circa il 70 per cento delle terre aride di tutto il mondo deve far fronte ad un ulteriore degrado. Nell’ultimo decennio la Terra ha perso un totale netto pari a circa 94 milioni di ettari di foreste. In tutto il mondo l’erosione dei suoli è responsabile di circa il 40 per cento del degrado dei terreni; il terreno arabile e coltivabile per persona si va riducendo: all’inizio degli anni sessanta era pari a 0,32 ettari per persona, alla fine degli anni 90 era sceso a 0,21 ettari per persona. Le aree con scarsità e difficoltà di approvvigionamento idrico sono in aumento. Più di 11.000 specie sono state incluse nell’elenco di quelle minacciate di estinzione, di queste 800 sono già estinte ed almeno 5000 sono fortemente minacciate.

Integriamo questi dati con quelli che riguardano la principale risorsa energetica, naturale e non rinnovabile, che ha un ruolo essenziale nella modernizzazione industriale: il petrolio. Il consumo mondiale di petrolio, dal 1950 al 2000, è cresciuto più di 8 volte, da 436 milioni di tonnellate a 3680 milioni di tonnellate. Il consumo di petrolio è concentrato nei paesi più industrializzati: dove circa il 16% della popolazione mondiale consuma il 62% del petrolio, lasciando solo un 38% all’84% della popolazione mondiale. In altre parola un abitante di un paese industrializzato consuma 2.36 tonnellate di petrolio l’anno, 10 volte più di uno dei paesi in via di sviluppo (0.25 t/anno). Questi dati vanno letti congiuntamente e nel contesto della globalizzazione.

I problemi della povertà, dell’esclusione, dell’ingiustizia ci sono sempre stati. Attenzione però a leggere solo le percentuali e non i numeri della nuova dimensione della povertà: trecento milioni di poveri su un miliardo fa il 30%; un miliardo e duecento milioni su 6 miliardi non determinano un miglioramento con una riduzione al 20%, ma una quadruplicazione dei poveri, una massa enorme, in un mondo globalizzato dove tutti facilmente possono vedere il consumismo, praticato e promesso. Un consumismo non estensibile che alimenta senso di esclusione, odio dell’opulenza esibita, a fronte della povertà sofferta. Ricondurre il nuovo terrorismo internazionale solo alla radicalizzazione impazzita dell’estremismo islamico significa motivare un effetto con un effetto, senza indagare sulle cause di tanto odio.

Le crisi ambientali sono state costantemente presenti in tutta la storia dell’industrializzazione, ed anche prima. Ciò che è cambiato è la dimensione di tali crisi e delle loro ricadute, non solo in questa o quella località, ma a livello globale. Né vale il richiamo ai grandi sconvolgimenti naturali, climatici e della vita sul pianeta: quelli sono avvenuti su una scala diversa, quella dei tempi geologici; quelle attuali stanno avvenendo in tempi storici: sono in grado di incidere sul presente ed il futuro prossimo dell’umanità. La capacità del pianeta di assorbire inquinamenti non è illimitata e la capacità delle attività umane di produrre impatti su scala globale è cresciuta in maniera esponenziale: ci sono stati anche miglioramenti locali, ma innescando peggioramenti globali rilevanti.

Molto si è discusso della forte crescita della popolazione mondiale del secolo scorso e della difficoltà ad avere risorse accessibili per tutti: terreno da coltivare, acqua sufficiente, energia disponibile, ma anche materie prime. Non si possano fare proiezioni lineari della crescita della popolazione (che è destinata a stabilizzarsi) e del consumo di risorse naturali. Resta tuttavia un fatto: la crescita della produttività delle risorse naturali, alimentata dalla modernità industriale, non riesce a reggere la crescita del consumismo, e non pare sufficiente a consentire un’estensione degli attuali modelli di produzione e di consumo all’intera (o almeno alla gran parte) popolazione mondiale. La crisi sociale, con un numero di poveri e di disperati molto elevato, e la crisi ecologica si intrecciano e si alimentano a vicenda e su scala globale, delineando un quadro di insicurezza e di incertezza, delinendo una “società mondiale del rischio” (U.Beck, La società del rischio, Carocci, 2000). Si potrà discutere a lungo della portata, dell’attualità e della gravità dei pericoli prodotti dalla crescita su scala globale della modernità industriale, ma un dato non dovrebbe sfuggire: la percezione, diffusa e prevalente, di tali pericoli è ormai tale da configurarli come rischi rilevanti. La percezione di un pericolo dipende dalle informazioni disponibili (queste informazioni sono, per un largo pubblico, ampie e sostenute da una buona base scientifica), da valutazioni culturali (che stabiliscono una scala di priorità e di apprezzamento, che portano oggi ad esigere elevati livelli di tutela ambientale e sanitaria) ed anche da moti profondi dell’inconscio (spesso stupidamente trascurati perché ritenuti irrazionali o emotivi e che invece hanno un ruolo rilevante nei comportamenti umani).

La modernità industriale è oggi percepita come fortemente rischiosa, non più in grado di assicurare quel tranquillo e sicuro benessere che aveva promesso e che ha segnato la sua fortuna mondiale, perché sono noti e provati i rischi ed i pericoli che essa ha prodotto, perché la crescita culturale ha fatto maturare nuovi valori critici, perché i miti della crescita illimitata non entusiasmano più, ma incontrano un diffuso disincanto. Sono ormai ricorrenti nelle analisi economiche, nei Paesi industrializzati, termini come “insicurezza dei mercati”, “instabilità finanziaria”, “timori di perdita di competitività” e, in particolare in Europa, perfino “rischi di declino economico”.

In un recente libro di Elisabeth Warren, docente di Harvard e Amelia Warren, economista “La trappola dei due stipendi”, è delineato un quadro allarmante della fine del sogno americano per la classe media. Sono noti gli studi sull’emarginazione negli USA (testimoniata dal numero anomalo della popolazione detenuta nelle carceri) ed anche sull’eccessiva instabilità del lavoro dipendente, (costretto a rapporti di lavoro precario e spesso anche all’insicurezza sanitaria e previdenziale). Questo studio fotografa una novità: una classe media fortemente indebitata, in uno stato di precarietà sconosciuto in passato. Al punto che, mentre in passato, un solo reddito, di solito quello del marito, bastava alla classe media per mantenere un buon livello di vita; oggi due redditi, di marito e moglie, specie se hanno figli, non bastano più.

Pare proprio il caso di dire: tutto il mondo è paese. Anche in Italia si registra una situazione simile: con minor indebitamento delle famiglie, ma con un più forte taglio dei consumi, non solo dei lavoratori dipendenti a livello di reddito medio- basso, ma anche del ceto medio. In Italia, dove il PIL non sta crescendo, si discute molto di “inflazione percepita” superiore a quella nominale e si tende a scaricare una parte della colpa sull’Euro. In Europa, dove il PIL cresce poco, si discute sulle difficoltà che si incontrano nel far diventare un’area di mercato integrato, e con una moneta unica, un sistema economico più competitivo. Negli Stati Uniti, dove il PIL ha ripreso a crescere, si parla di crescita con sviluppo debole, attribuendo tale debolezza all’incertezza delle prospettive, a causa della insicurezza e dell’instabilità internazionali.

Nessuno sta comunque brindando al futuro, alle magnifiche e progressive sorti della modernizzazione industriale. Anche se le analisi, e le politiche economiche, restano centrate sulla congiuntura e su dati che non sembrano in grado di consentire diagnosi adeguate di prospettiva, pochi credono che all’orizzonte vi sia una nuova età dell’oro. Se non vogliamo parlare di crisi economica strisciante, non avendo a disposizione sufficienti elementi, accontentiamoci di un’onesta e parziale valutazione: l’attuale fase della globalizzazione è caratterizzata da una cresciuta vulnerabilità economica e da una crescente insicurezza ed incertezza. Un’economia fortemente espansiva sta diventando un’economia fortemente a rischio. E non solo e non tanto per ragioni economiche.

La percezione del rischio in particolare nei paesi industrializzati, non è legata ai soli rischi economici (timore di perdere un livello di benessere ormai raggiunto, timore di non poter raggiungere un livello più elevato di benessere che sembrava a portata di mano) é ben più complessa, di natura culturale e psicologica, coinvolge dimensioni profonde della modernità industriale. Numerose rilevazioni demoscopiche e diverse indagini sui consumi indicano, in Europa, una contrarietà, nettamente prevalente, nei confronti dell’agricoltura transgenica e dei prodotti alimentari contenenti organismi geneticamente modificati (OGM). L’applicazione su scala industriale delle manipolazioni genetiche, attuate per fini produttivi e commerciali, superando le naturali barriere fra le specie ed i tempi lunghi dell’evoluzione naturale, rappresenta il livello più alto raggiunto dalla modernità industriale, dell’onnipotenza della sua scienza, in grado di creare una seconda natura, e della assenza nel suo orizzonte di un limite precauzionale.

Questa onnipotenza della scienza, questo dominio della tecnica sulla natura, questa assenza di un limite, a ben vedere, sono molle fondamentali della travolgente crescita economica e del successo della civiltà occidentale che ha assunto la forma della modernità industriale. Per questo gli OGM vengono difesi accanitamente dai conservatori della modernità che vedono i valori del progresso scientifico ed economico  in pericolo. I conservatori della modernità industriale sostengono, in genere, che le difficoltà attuali di crescita e sviluppo sarebbero superabili con una maggiore liberalizzazione, applicata indiscriminatamente, a tutti i settori, economici come della ricerca. Hanno mantenuto una mentalità da Far West, di frontiera illimitata che si può spostare continuamente e dove la giustizia è una risultante della capacità di ciascuno di farsi giustizia da sé, non dall’etica della responsabilità e delle regole condivise. E’ una visione pericolosa, è un fattore non secondario della crisi della modernità industriale e di quella della sua egemonia.

Anche la sinistra sta facendo faticosamente i conti con tale crisi.

Il pensiero di ispirazione marxista pone l’accento sulla critica dell’economia di mercato e dei rapporti di produzione di tipo capitalistico. Vede una contraddizione fondamentale fra lo sviluppo delle forze produttive ed i rapporti di produzione di tipo capitalistico. Il superamento di tale contraddizione, e quindi la costruzione di un nuovo modello sociale, consisterebbe nella sottrazione da parte della classe produttrice della direzione della produzione e della ripartizione dei beni dalle mani della borghesia, incapace di assicurare la crescita ed il benessere. Trascurando così i limiti che incontrano la crescita economica ed i modelli culturali del consumismo, assieme all’impossibilità di avere equità sociale, su scala globale, con l’estensione della crescita quantitativa, ed i livelli di crisi ecologica che tale estensione comportano, il pensiero marxista, al di là di singoli pregi e difetti, resta interno all’orizzonte culturale e filosofico della modernità industriale.

Quando polemizza con Malthus, Marx non lo fa per la formulazione ingenua della teoria della crescita geometrica della popolazione superiore alla possibilità di crescita,lineare, dei mezzi di sussistenza, ma perché ritiene che vi possa, e vi debba essere un progresso, scientifico e tecnico, e una crescita economica, liberata dai rapporti capitalistici di produzione e di ripartizione dei beni, in grado di generalizzare il benessere, senza che i vincoli naturali e ambientali possano avere alcun rilievo effettivo. E quando Marx esprime apprezzamento per Darwin lo fa, oltre che per contrastare le concezioni religiose della storia e dell’evoluzione, perché questi, differenziandosi da Malthus, afferma che in nessuna regione della terra è stato raggiunto un grado di saturazione nell’utilizzo dei mezzi di sussistenza. Ed a quei tempi l’affermazione era sostanzialmente vera! Nella seconda metà dell’800, infatti, la popolazione mondiale non superava il miliardo e duecento milioni di persone, un quinto di quella attuale, il PIL mondiale era 25 volte inferiore di quello attuale ed i consumi di energia erano cinquanta volte inferiori. L’inquinamento era un problema rilevante solo in pochi centri industriali. Nella sottovalutazione dei limiti della capacità di carico del pianeta, Marx aveva qualche giustificazione: rifletteva il contesto storico della sua epoca. I marxisti della seconda metà del Novecento, quando tali limiti si erano ormai chiaramente manifestati, di giustificazioni ne avevano certo molte di meno.

Nel valutare le esperienze storiche fallimentari del “socialismo reale” del secolo scorso, si è posto l’accento sul controllo di Stato dei mezzi di produzione, che ha prodotto inefficienza economica, e sulla mancanza di democrazia e di libertà. In questa critica manca un riferimento fondamentale: il modello di modernità industriale è stato perseguito, sia pur con minori successi, anche dai sistemi del socialismo reale. L’idea dei “soviet più elettrificazione”, di un diverso modello politico per realizzare lo stesso modello di crescita economica e di progresso industriale, era profondamente radicata in questi sistemi ad elevato impatto anche ambientale.

Ormai da tempo, il modello politico della sinistra democratica non è più quello “sovietico”: pluralismo, diritti civili e dei singoli, equilibrio dei poteri, garanzie e libertà democratiche, sono ormai contenuti e valori consolidati del patrimonio politico della sinistra democratica. Lo stesso non si può dire per il modello della modernità industriale, della sua idea di crescita illimitata e della sua concezione del progresso tecnico e scientifico. Torniamo alla critica alle manipolazioni genetiche dell’agricoltura e degli alimenti, critica accolta con diffidenza e, a volte, con aperta ostilità anche a sinistra. Anche ammettendo che tali prodotti geneticamente modificati possano comportare vantaggi economici, obiettano i critici, chi ci assicura che la loro assunzione come alimenti nel lungo termine non comporti rischi per la salute? Chi ci assicura che la loro immissione nell’ambiente non comporti future conseguenze per gli equilibri naturali? Fra i due possibili errori, sottovalutare il rischio o sopravvalutarlo, i critici degli OGM preferiscano commettere il secondo. Ma, applicando in questo modo il principio di precauzione, obiettano i sostenitori anche di sinistra degli OGM, si mette in discussione la fiducia nella scienza, si da voce a paure irrazionali e non provate, con implicazioni ampie e generali che taluni arrivano a bollare come minacce di oscurantismo anti-illuminista. I sostenitori degli OGM, con queste considerazioni, non solo mostrano di ignorare il peso delle componenti emotive e dell’inconscio nei processi cognitivi, ma, soprattutto, non hanno colto che nella richiesta di applicazione forte del principio di precauzione, vi sono ragioni fondate della critica, certo non solo agli OGM, ma ad aspetti rilevanti di quello che potremmo chiamare il paradigma della modernità industriale: il primato del valore economico, la sottovalutazione dei rischi ambientali ed individuali, una fiducia cieca nella scienza e nella tecnologia e nelle loro illimitate possibilità.

Raggiunto un certo livello di benessere nelle società industriali, non si è più disponibili a rischiare la salute per qualche vantaggio economico. L’economia stenta a mantenere quel primato che la tradizione industriale le affida. La scienza è uscita da tempo dai santuari e dai riti della sacralità. Ha prodotto innegabili progressi, ma si è sporcata spesso le mani, con tecnologie militari di distruzioni di massa, atomiche, chimiche e biologiche, e con una diffusa mercificazione. La fede nella scienza, quale religione della modernità industriale, è pesantemente in crisi. Sono ormai molti coloro che non hanno più fede nella religione della scienza e pensano che molti nuovi prodotti chimici, molte tecnologie militari, molte manipolazioni genetiche, molte irresponsabili applicazioni tecniche e scientifiche possano rappresentare autentiche minacce per il futuro dell’umanità e dello stesso pianeta.

La modernità industriale ha fondato e consolidato moderni Stati nazionali: basi organizzate di un ordinato mercato interno e di un’espansione continua del commercio estero. A ben vedere questo binomio, dello Stato su base nazionale e della tendenza espansiva, ha prodotto nel secolo della massima affermazione della modernità industrialista, ben due guerre mondiali e innumerevoli altri conflitti militari.

Nell’era della globalizzazione la fiducia nella capacità degli Stati nazionali di garantire sicurezza ed espansione è in forte crisi. Anche gli USA, unica superpotenza mondiale di questo avvio di nuovo secolo, si trovano in difficoltà ad imporre le loro politiche espansive senza coinvolgere le sedi multilaterali delle Nazioni Unite. Il mercato globale sovrasta la capacità di regolazione dei singoli Stati. E non è solo un problema di merci e di capitali, ma di informazione, cultura e persone che si spostano a livello globale.

2.      Per una critica alla critica premoderna della modernità industriale

Poiché i cattivi stanno dall’altra parte, è molto facile prendere per buoni tutti quelli che, in un modo o in un altro, stanno dalla parte dell’ecologia. Il conformismo ecologista tuttavia non aiuta a rendere più incisivo ed efficace il pensiero critico dell’ecologia politica che, non a caso, anche in un momento di crisi della modernità industriale, stenta ad imporsi.

Il paradigma delle critica ecologica premoderna in fondo è molto semplice, e anche per questo capace di esercitare una profonda influenza: la modernità promuove la crescita, l’ecologia premoderna sostiene l’arresto; la modernità promuove l’industrializzazione, essa sostiene la deindustrializzazione; la modernità si globalizza, essa sostiene l’autorganizzazione di piccole comunità locali autosufficienti; la cultura occidentale è alla base della crescita, essa sostiene quelle orientali; la scienza è un motore fondamentale della modernità, essa propone l’ecologia come fede religiosa.

Edward Goldsmith, uno dei più autorevoli e influenti ecologisti, che esprime in un modo chiaro tale concezione, scrive “…La scienza non ha bandito la fede: ha sostituito la fede nella scienza moderna alla fede in una religione tradizionale. L’ecologia, con la quale dobbiamo sostituirla, è anch’essa una fede. E’ una fede nella saggezza di quelle forze che hanno creato il mondo naturale ed il consumo di cui esso fa parte; è una fede nella sua capacità di fornirci straordinari benefici: quelli necessari per soddisfare i nostri bisogni più fondamentali” (Goldsmith, “Il TAO dell’Ecologia”, Muzzio Ed.; .1997). “Affinché la gente accetti i principi elencati in questo libro, è lo stesso paradigma della scienza che deve essere abbandonato, e quindi la visione del mondo del modernismo, che esso rispecchia fedelmente, ed essi devono essere sostituti dalla visione del mondo dell’ecologia. Tale conversione, o cambiamento generalizzato del paradigma, implica una profonda risistematizzazione e ricombinazione della conoscenza che costituisce la nostra visione del mondo. Essa deve toccare i suoi stessi fondamenti metafisici, etici ed estetici. Esso deve, in effetti, implicare un cambiamento analogo ad una conversione religiosa…”. “… Ricordiamo che la visione del mondo dell’ecologia è in gran parte quella della società vernacolare basata sulla comunità, mentre quella del modernismo è la visione del mondo della società industriale. Dobbiamo metterci a combattere ed indebolire sistematicamente le principali istituzioni del sistema industriale: lo stato, le corporations, la scienza e la tecnologia che esse usano per trasformare la società ed il mondo naturale. Allo stesso tempo dobbiamo fare qualcosa per contribuire a ricreare la famiglia e la comunità, e soprattutto un’economia locale e diversificata basata su di esse”.

Prima di entrare nel merito dei pilastri del pensiero di Goldsmith (l’ecologia come fede nel mondo naturale, la visione del mondo antimoderna centrata su una visione di tipo religioso, la comunità e l’economia locale come basi della società vernacolare) è bene fare due passaggi, uno sulle società primitive e l’altro su quelle orientali: entrambi questi modelli influenzano la concezione di Goldsmith.

Presso i popoli primitivi non si trova solo un rispetto per la natura o una capacità di convivere con essa ma “una costante resistenza verso le rotture dell’ordine di vita circoscritto dal rito che corrisponde ad una resistenza verso le alterazioni dei sistemi legati all’ambiente e alle stagioni” (L.Zoja op.cit.). Per questo, per il primitivo, la vita è inserita in un naturale immobilismo della natura e del suo ambiente. L’uomo primitivo non si sente investito di responsabilità di cambiamento e di miglioramento dei destini dell’umanità ed è per questo che non percepisce alcuna necessità di progresso.

L’etica buddista e quella induista, con tratti comuni fra loro e con il confucianesimo, portano ad un rispetto del mondo, che considerano un dato non modificabile, attraverso la liberazione dal desiderio. L’azione o il progetto di un cambiamento sono da considerarsi, in tali concezioni, illusioni che alterano la condizione dell’uomo. Producono così un atteggiamento che noi chiameremmo rinunciatario non solo verso l’idea di giustizia che non viene collegata alla preoccupazione di agire per realizzarla, ma anche per visioni del mondo contemplative che rinunciano ai cambiamenti possibili.

Lo studio dei popoli primitivi è culturalmente interessante; la conservazione delle loro culture e dei loro habitat è doveroso. Pensare, tuttavia, che la vita nei popoli primitivi possa fornire modelli alternativi, praticabili in società industriali, pare a me del tutto privo di fondamento. Per elementari questioni di numeri (siamo miliardi in un piccolo Pianeta e non poche migliaia in grandi foreste) e di benessere consolidato che può essere cambiato democraticamente, proponendo e praticando una migliore qualità della vita, non predicando privazioni e ritorni al passato che, al di là delle buone intenzioni, hanno il sapore e l’effetto di minacce e non certo della prospettiva di un futuro auspicabile.

Più complesso è misurarsi con le culture, e le religioni, orientali. Senza per questo voler dare giudizi di valore o effettuare analisi comparate che richiederebbero ben altro spazio e studi, a me pare rilevante una considerazione: tali culture non hanno né fermato, né costruito, nei Paesi dove erano e sono consolidate, un’alternativa alla modernizzazione industriale. Anzi, in Giappone e nel Sud est Asiatico prima e, oggi, in India ed in Cina è stata avviata una vera e propria corsa alla modernizzazione industriale, con qualche variante orientale, non sempre migliorativa, ma sostanzialmente nel solco della modernizzazione di stampo euro-americano.

Ma torniamo a Goldsmith ed alla sua concezione dell’ecologia premoderna. Parlare di ecologia come di una fede religiosa mi pare un errore. L’ecologia scientifica, come le altre scienze, richiede verifiche, è soggetta ad errori, è in continua evoluzione. L’ecologia politica, che non deriva automaticamente dall’ecologia scientifica, esprime un insieme di valori e contenuti, sostenuti da forti convinzioni, è ben altra cosa. E’ vero che Gaia ha resistito anche all’estinzione dei dinosauri. Ciò non autorizza, tuttavia, ad occuparci di Gaia a prescindere dall’umanità. Visto che non abbiamo altra possibilità di guardare la natura se non attraverso i nostri occhi, di comprenderla se non con la nostra intelligenza e di amarla con il nostro cuore, la nostra è una visione umana della natura. Neanche volendo, saremmo in grado di abbracciare dall’alto, o dall’esterno, il creato. La nostra visione della natura è umana e quindi culturale. Non siamo obbligati ad occuparci degli altri, delle ingiustizie, della povertà. Basta che non sosteniamo che, praticando una via di pochi, saremmo eticamente più coerenti e, addirittura, più radicali.

L’autolimitazione del desiderio può essere giustamente invocata per chi ha abbastanza; un pò meno per chi fa la fame e ancor meno per giustificare il mantenimento di condizioni di ingiustizia. La sostenibilità non si realizza rinchiudendosi in piccole comunità locali autosufficienti, vernacolari e preindustriali. Così si radica qualche setta religiosa, forse, mentre il mondo va da tutt’altra parte. E lo si lascia andare: Un’alternativa che sia tale, nella nostra epoca, deve essere in grado di coinvolgere miliardi di persone, con una credibile prospettiva di migliore qualità della vita, di migliore benessere. Ciò è possibile con una concezione del mondo che, anziché essere fondata sul mito della crescita illimitata, si basi su una coscienza del limite che non comporta né la fine dello sviluppo umano, né la rinuncia ad una migliore qualità ed equità sociale, basate su un diffuso e sobrio benessere.
Ciò richiede lo sviluppo di quella straordinaria risorsa rinnovabile che è la conoscenza nonché, anche per ricondurre gli impatti di miliardi di persone entro i limiti della sostenibilità ecologica, lo sviluppo di tanta e buona tecnologia, insieme s’intende ad un cambiamento culturale e degli stilli di vita, in grado di ridefinire la stessa concezione e percezione del benessere.

Per l’ecologia premoderna lo sviluppo sostenibile sarebbe solo una contraddizione di termini: lo sviluppo, qualunque sviluppo, sarebbe comunque, ormai, incompatibile con la sostenibilità. L’idea di trasferire nella storia e nella società umana le leggi della natura non è nuova ed è sbagliata. Riconoscere la stretta relazione fra storia dell’umanità e storia della natura, fra natura e cultura, fra genotipo e fenotipo, non significa annullare ogni distinzione, né sottovalutare la portata delle diversità qualitative, fra civiltà umane e la vita delle altre specie e degli ecosistemi.

Una singola modalità di sviluppo della civiltà, fondata sulla crescita quantitativa illimitata, non esaurisce le possibilità di sviluppo umano nella storia. Perché mai dovremmo rinunciare all’idea di poter fare di più e di meglio con meno, con minori impatti ambientali e minore consumo di risorse naturali? Perché mai il benessere non potrebbe essere fondato, raggiunta una sobria e sufficiente base materiale, sull’espansione immateriale della qualità della vita, ricca di convivialità, partecipazione, relazioni, comunicazione e conoscenza, con nuovi modelli di consumo? Perché mai non potrebbe esistere uno sviluppo, anche economico, fondato su una nuova qualità delle produzioni e dei consumi, con modelli di produzione e di consumo sostenibili, sia a livello ecologico, sia a livello sociale?

E’ vero che in un ecosistema chiuso, o anche in un ecosistema aperto a limitati scambi di materia e di energia con l’esterno, la riproducibilità e la stabilità di lungo termine sono possibili solo con una condizione di equilibrio omeostatico, in grado di ritornare in equilibrio assorbendo le perturbazioni. I tempi di adattamento e di evoluzione biologica degli ecosistemi sono molto lunghi e le modalità di tali adattamenti ed evoluzioni sono abbastanza imprevedibili, ma avvengono entro una gamma ristretta di possibilità. Se manca il cibo in un certo ambiente, una specie animale, se può, migra altrove, oppure si estingue. Se fa troppo freddo o riesce ad adattarsi in tempo, per esempio andando in letargo, aumentando la pelliccia e il grasso accumulato, oppure si estingue.

Nemmeno la nostra specie dispone di possibilità illimitate: non dispone di un pianeta di scorta. Tuttavia ha capacità di adattamento e di cambiamento di livello diverso di quelle delle altre specie: dispone di capacità di accumulare la conoscenza, di imparare non solo dall’esperienza, ma dalla cultura, dispone di facoltà educative e formative, dispone di livelli di libertà e di possibilità di scelta superiori. La scoperta e la valorizzazione scientifica e tecnologica di tali possibilità, durante la modernità industriale, hanno alimentato illusioni di onnipotenza, forse perfino inconsci miti di immortalità. (che senso avrebbe altrimenti l’accumulo di ricchezza oltre ogni ragionevole possibilità di consumo per quanto opulento, proprio, dei propri figli e nipoti?).

Il risveglio della coscienza dei limiti produrrà forse anche la fine di ogni illusione di onnipotenza, dei progetti finali e sistemici della storia, ma non potrà certo porre fine a quella grande e imprevedibile narrazione che è la storia umana, né alla possibilità di intervenire nella storia in maniera consapevole e creativa.

3. La modernizzazione ecologica come seconda modernità

Attingo l’idea di una “seconda modernità” connessa a quella di “società del rischio”, dall’elaborazione di Ulrich Beck, studioso tedesco del rapporto fra le tematiche ambientali e le scienze sociali, considerato uno dei maggiori sociologi contemporanei. “Il tema di questo libro – scrive Beck (“La società del rischio”, Carocci 2000) – è il “post”, prefisso non appariscente ma parola chiave del nostro tempo. Tutto è “post”. Ci eravamo abituati al “post-industrialismo”, un termine cui riusciamo ancora ad associare dei contenuti. Con il “post-moderno” le cose cominciano a confondersi. Nell’oscurità del post-illuminismo tutte le vacche si danno la buonanotte. “Post” è la parola in codice per un disorientamento che si fa moda. Rinvia ad un “oltre” che non sa nominare, ma resta legato ai contenuti che nomina e nega, nell’irrigidimento di ciò che è noto”. “Questo libro è un tentativo di individuare le tracce della parola “post” (o dei sinonimi “dopo”, “tardo”, “al di là”), nello sforzo di comprendere i contenuti che le ha dato lo sviluppo storico della modernità negli ultimi due o tre decenni. Ciò è possibile soltanto dopo una dura lotta contro le vecchie teorie e le abitudini di pensiero che proprio grazie alla parola “post” sopravvivono a se stesse”.

Trovo convincente, al di là delle singole argomentazioni, questo approccio metodologico che punta a “prevedere nel campo visivo un futuro che si sta già delineando e contrapporlo al passato ancora predominante” (Beck op. cit.). La modernità industriale, nata in occidente, si è ormai globalizzata, creando i presupposti per un confronto più diretto con altre culture e altre civiltà. Questo confronto evidenzia alcuni punti di forza della modernità industriale che ne facilitano la diffusione, ma anche non pochi punti di debolezza che portano alcuni critici della civiltà industrialista a vere e proprie conversioni, in particolare al pensiero, filosofico e religioso, orientale. La seconda modernità, dati i presupposti e la dimensione globale, non avrà, presumibilmente, un matrice culturale e filosofica, così unilateralmente occidentale. Tuttavia non mi pare affatto che debba assumere i caratteri di una conversione a culture orientali, né che si dovrebbero annullare alcuni caratteri forti della modernità che, anzi, andrebbero sviluppati con maggiore coerenza e radicalità.

Il carattere laico, non rivelato e non religioso, della conoscenza non porta necessariamente né al riduzionismo positivista, né al piatto empirismo. Una conoscenza che non ignori i limiti della natura, ma sia in grado di assumerli come anticorpi rispetto ai rischi della patologia dell’onnipotenza, non diventa inevitabilmente contemplativa, ma può alimentare un’etica della responsabilità e della solidarietà verso l’umanità, le future generazioni e le altre specie. Una conoscenza che non pretenda, né si illuda, di ingabbiare la storia in progetti finalizzati, globali, definitivi, non è necessariamente condannata ad interpretare il mondo lasciando che sia ciò che è, ma può essere il buon frutto di un’interazione, di una partecipazione consapevole ad un suo cambiamento.

La modernità industriale non può certo essere criticata perché troppo umanista e troppo illuminista, semmai dovrebbe essere chiamata a rispondere per l’incoerenza e l’incapacità di essere realmente umanista e illuminista: troppe volte ha chiuso gli occhi di fronte a violazioni dei diritti umani, e troppe volte si è prestata a derive irrazionali che hanno alimentato rischi rilevanti (l’utilizzo di ingenti risorse per costruire armi di distruzione di massa oppure l’immissione nell’ambiente di sostanze pericolose persistenti, per fare due esempi). Per prevenire, limitare e controllare i rischi non si può che adottare il principio di precauzione che richiede una razionalità forte, non frammentata e non subordinata a contingenti interessi economici ed una scala di valori chiara, dove i valori umani, di responsabilità e solidarietà anche con le altre specie, stiano al primo posto.

La modernità industriale ci ha proposto come inscindibile il binomio economia di mercato e democrazia: in realtà ha teso a far derivare la democrazia dall’economia di mercato ed a privilegiare comunque l’interesse economico. Quel binomio deve stare realmente insieme e non solo perché abbiamo potuto verificare la fallimentare esperienza dei paesi a “socialismo di stato”, senza mercato e senza democrazia, ma anche perché abbiamo visto, e continuiamo a vedere, paesi aperti al mercato ma senza democrazia e perché vediamo i rischi di una globalizzazione del mercato con debole, se non assente, democrazia.

Le esperienze in Africa, in Sud America ed in Medio Oriente di aperture al mercato senza democrazia, ed anche la colossale crescita dell’economia di mercato in una Cina autoritaria e antidemocratica, smentiscono l’illusione che il mercato porti automaticamente con sé la democrazia. Su scala globale le preoccupazioni ed i rischi per la debolezza della democrazia sono anche maggiori. I capitali si spostano in tempo reale da una parte all’altra del pianeta, alimentano speculazioni finanziarie e monetarie che sfuggono alle possibilità di controllo. Un numero ridotto di imprese transnazionali controlla le quote rilevanti del commercio mondiale, determinando uno squilibrio strutturale fra il potere economico di pochi e le possibilità di controllo democratico.

Forse anche per questo la domanda di democrazia è cresciuta ed è diventata più radicale. Forse per questo nell’era della globalizzazione si fa più forte la domanda di partecipazione. Sulle forme della partecipazione democratica della seconda modernità occorrerebbe uno specifico approfondimento, tanto vasto e innovativo è il campo d’indagine.

Il termine stesso “relazioni internazionali” è ormai riduttivo: milioni di persone si rapportano direttamente, partecipano a comunicazioni, relazioni, scambi diretti su scala globale, grazie alla tecnologia informatica, alla telecomunicazione, allo sviluppo dei sistemi di mobilità. Oltre un certo livello di soddisfacimento dei bisogni materiali, non c’è solo alienazione consumista, ma anche possibilità e voglia di partecipazione alle scelte, alla gestione del proprio territorio. Sia le situazioni di maggiore disagio sociale, sia quelle di crisi ambientale, richiedono un livello impegnativo di partecipazione non solo come strumento, ma come contenuto della soluzione del problema. Lo stesso sviluppo di nuovi movimenti che vanno oltre le forme tradizionali della rappresentanza politica moderna (i partiti politici ed i sindacati), rappresenta la ricerca e la pratica di una partecipazione attiva, critica, di rinnovata opposizione: un’opposizione partecipata che è vitale per la democrazia.

La modernità industriale ha sovralimentato di tecnologia la crescita, in particolare in tre direzioni: quella rilevantissima degli impieghi militari (con armi sempre più potenti, sofisticate, complesse e micidiali che assorbono ingenti quantità di risorse della ricerca scientifica), quella dell’aumento della produttività del lavoro (con lo sviluppo della meccanizzazione, con l’impiego dell’intelligenza artificiale e dell’informatica e con l’uso intensivo dell’energia, in particolare di origine fossile) e quella della crescita dei consumi (diversificando e moltiplicando i beni ed i servizi, progettando consumi che si autoalimentano inducendo nuovi consumi, sviluppando le tecniche della commercializzazione, del marketing, della pubblicità e della comunicazione).

La modernità industriale, grazie a questa sovralimentazione ha prodotto un’obesità tecnologica che, da una parte, produce un ingente spreco di risorse umane, finanziarie e tecniche e, dall’altra, la rende pesante, poco disponibile e scarsamente efficiente per affrontare le vere sfide del nuovo secolo. Il XX secolo ha sperimentato l’uso delle armi atomiche, di armi sempre più distruttive e tecnologiche. Dire che basterebbe una parte delle enormi spese militari per eliminare la fame nel mondo è forse banale, ma dimenticarlo o ignorarlo è inqualificabile. L’espansione della tecnologia militare è, da una parte, una risposta sbagliata al bisogno di sicurezza, cresciuto nella società globale del rischio, e, dall’altra, della ricerca di supremazia come mezzo di sostegno all’espansione economica, alla sicurezza dei mercati e dell’approvvigionamento di energia e materie prime.

Nell’era della globalizzazione non solo è difficile e rischiosa l’egemonia militare di un’unica superpotenza, ma è sempre meno praticabile una sicurezza fondata sulla forza delle armi, come mostrano, per un verso, le crescenti difficoltà dell’occupazione militare dell’IRAQ e, per un altro, l’impossibilità di una soluzione militare del conflitto israelo-palestinese. Non solo perché il terrorismo non può essere battuto con la tipica guerra statale, non solo perché la superiorità tecnologica consente di vincere le battaglie, ma poi aiuta poco a mantenere il controllo dei territori e di popolazioni, numerose e con capacità di resistenza, resa più efficace dalla stessa diffusione della tecnologia. Ma soprattutto perché la critica al primato della forza militare, che in settori non più trascurabili dell’opinione pubblica mondiale è anche rifiuto della guerra, è molto forte così, come è cresciuto il timore della proliferazione dei conflitti armati e del terrorismo. La difesa con la forza delle armi di un modello di sviluppo insostenibile, di uno stile di vita non estendibile, è vissuta, in maniera diffusa, come ingiusta e immorale. Si prospetta inoltre l’esigenza di una riduzione del ruolo militare statale, a vantaggio di una visione multilaterale della sicurezza, supportata da strumenti di polizia internazionale in grado di operare sotto l’egida dell’ONU: il che potrebbe anche contribuire a frenare la corsa ad armamenti tecnologici, sempre più costosi e sofisticati.

Il tema dell’occupazione ha una crescente valenza sociale ed economica. L’aumento tecnologico della produttività del lavoro non può essere illimitato e non può prescindere dai riflessi che ha sull’occupazione. Mentre il lavoro è abbondante, le risorse naturali tendono a diventare scarse, alcune lo sono già. La ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica dovrebbero essere indirizzate verso un aumento della produttività delle risorse naturali, realizzando una vera e propria rivoluzione dell’ecoefficienza, tutelando di più anche l’occupazione. Per avere una migliore qualità e sostenibilità dei consumi, sarebbe necessaria tanta buona tecnologia nella progettazione, nella realizzazione e nella gestione di beni e servizi.

Facciamo un esempio che, all’apparenza, è il più lontano dalla tecnologica: quello dello sviluppo dell’agricoltura biologica e di qualità. Una buona azienda agricola che punta su prodotti di qualità, ottenuti con metodi di coltivazione biologica, necessita di analisi dei terreni, della scelta delle sementi e delle colture più idonee, di tecniche adeguate di distribuzione sul terreno, di integrazione e rotazione delle colture, di tecniche di coltivazione e di irrigazione, di preparazione e impiego di concime organico e via dicendo. Perché l’azienda funzioni, con risultati di qualità, occorre un livello universitario di conoscenza e la disponibilità di un buon livello di tecnologia, come ho potuto verificare direttamente in alcune di queste aziende biologiche di successo. In un pianeta con oltre 6 miliardi di abitanti non c’è sostenibilità possibile senza un più esteso impiego di quella grande risorsa rinnovabile che è la conoscenza e senza un balzo in avanti nello viluppo delle tecnologie della sostenibilità, per aumentare l’efficienza energetica e l’utilizzo delle fonti rinnovabili e pulite, per la riduzione del consumo di risorse naturali e di materiali, per sostituire sostanze chimiche e materiali pericolosi, per prevenire e ridurre gli impatti ambientali.

E’ evidente che non è possibile una soluzione solo tecnologica della problematica complessa dell’insostenibilità nell’era della globalizzazione: vanno cambiati modelli di produzione e di consumo, insieme alle politiche pubbliche ed agli stili di vita. Uno sviluppo della scienza e delle tecnologie della sostenibilità è tuttavia indispensabile, anche se non è sufficiente.

La modernità industriale ha promosso la cultura dell’avere, del benessere identificato col possesso dei beni materiali. Raggiunto un certo livello di soddisfacimento dei bisogni materiali, la seconda modernità può, con maggiore coerenza e profondità, valorizzare quel carattere distintivo dell’uomo che non si limita ai bisogni materiali, ma che ha un concetto culturale della stessa utilità. ( Marshall Sahlins, Cultura e utilità, Anabasi, 1994). Sono proprio concetti culturali che qualificano l’utilità che portano a definire la seconda modernità come modernità ecologica: i contenuti più rilevanti, infatti, sia del “futuro che si sta già delineando”, sia del “passato ancora predominante” hanno a che fare con le nuove dimensioni del rischio ambientale, con la problematica della sostenibilità e con la coscienza del limite. “La modernità diventa riflessiva, il che significa che si preoccupa delle sue conseguenze involontarie, dei suoi rischi e delle sue implicazioni a partire dalle sue fondamenta” (Beck, op.cit.).

Il modello di sviluppo della modernità industriale è insostenibile in quanto non è né estendibile né durevole e genera ormai un senso di rischio diffuso. Quella della seconda modernità riflessiva, una modernità ecologica, non è una nuova teoria generale ma un “processo e delle dinamiche in cui la critica, l’autocritica, l’ironia e l’umanità giocano un ruolo centrale” (Beck, op.cit.).

 

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