CAPACITAZIONE E CONOSCENZA

La società della conoscenza, il pensiero di Amartya Sen e lo sviluppo sostenibile 

 


FELICITà, DISEGUAGLIANZE E L'INUTILE AUSTERITà

Amartya Sen al Festival delle scienze di Roma il17 gennaio 2012

restituzione di Flavia Li Chiavi

Sebbene ci siano ottimi motivi per cercare la felicità, che di certo è un metro ideale per la misura del benessere, l’etica sociale non può concentrarsi esclusivamente sulla felicità. Sta proprio in questo il principale limite dell’utilitarismo: la stesso benessere può accompagnarsi a diverse configurazioni sociali, comprese le violazioni dei diritti e delle libertà individuali. Una valutazione del benessere in termini utilitaristici ignora le libertà calpestate e le disuguaglianze persistenti. Amartya Sen riconduce questo limite dell’utilitarismo ad una accezione di felicità data dalla formula piacere meno dolore. Parla di Jeremy Bentham quando ricorda che la forza dei desideri è una guida fuorviante: i nostri piaceri finiscono per adattarsi alle nostre condizioni: le comunità minori, i precari con la loro vita incerta, i lavoratori sfruttati, le casalinghe oppresse dalle loro frustrazioni e dall’aria sessista che si respira. Incarnano la visione dell’Happy Slave a cui manca il coraggio di desiderare e le cui aspettative si autocensurano e si adeguano per rendere la vita sopportabile, anche se priva di speranza. L’effetto accidentale nella scala delle utilità è che gli svantaggi appaiono inferiori perché l’analisi non è obiettiva. I feelings sono pericolosi, si può essere contenti dei propri svantaggi in nome dell’approvazione generale, in nome di un Paese felice.  Così gli indicatori di soddisfazione sociale distorcono la realtà perché  ignorano le disuguaglianze tra le persone.

Ciò che davvero conta è ciò che la gente fa e può fare.  Per tutta la storia umana, la felicità è stata al primo posto. Da Socrate all’Eudaimonia di Aristotele. Ma c’è un conflitto tra chi si appoggia sulla felicità per giudicare una società e la complessità del termine felicità. Sen si sofferma sulla filosofia spontanea di Gramsci, dove la felicità nell’uso comune del quotidiano ha un senso più vasto, inclusivo, fino a comprendere l’approvazione sociale.

“Se vi chiedo se volete venire a pranzo con me, mi rispondereste: sarei lieto di venire. Ma non ti ho chiesto se ne sei contento, ho chiesto se sei d’accordo!”.

Essere di lieti di andare a pranzo  comunica una cosa più grande della felicità, e cioè  che se ne ha voglia, che si è accondiscendenti e che si approva. è un esempio di una regola di uso comune nelle conversazioni e le regole che governano la comunicazione appartengono al campo della filosofia spontanea. Cita al proposito suoi articoli su Gramsci e su Sraffa, del  quale è stato allievo all’università. Quindi bisogna distinguere tra la felicità “in senso stretto” di Bentham e dell’utilitarismo e la felicità di “uso corrente” della filosofia spontanea di Gramsci e Sraffa. Sen così sintetizza: l’infelicità che viviamo e la disfatta economica che subiamo è fatta dal piacere e dal dolore (la componente di Bentham) + la negazione delle libertà umane, tra cui la disoccupazione + la indignazione per le banche e la finanza per come hanno trattato la nostra vita + la indignazione verso gli stati e le organizzazioni sovranazionali.

Qui non si tratta del poco vento di Dante: "O gene umana, per volar sù nata, perché a poco vento così cadi? (Purgatorio, Canto XII, versi 95-96)", ma di forti venti avversi, di pessime politiche, di tempeste finanziarie, di manipolazione dei mercati, di scelte politiche grossolanamente sbagliate. Le alterne fortune hanno prostrato le persone che non possono permettersi l’accesso ai servizi. E anche chi non è gravemente colpito, è indignato. Ma l’indignazione può essere condivisa, la povertà no. E l’indignazione è un tipo di non-felicità.

Le elite finanziarie e i leader politici europei hanno scelto la via dell’austerità. Sen ricorda come già nel 2010, poi negli anni seguenti ammoniva gli europei sui gravi problemi di una moneta unica senza un’unione politica e fiscale.  La mancanza di flessibilità sui tassi di cambio, l’eterogeneità delle politiche fiscali e la morsa di bilancio si traducono per Spagna, Grecia e Italia in gravi tagli ai servizi pubblici. E’ la rotta che abbiamo scelto. I sacrifici che Helmut Kohl chiese ai tedeschi per l’unificazione della Germania, ricaddero sui cittadini della Germania Ovest, cioè dove lui viveva. Ma le politiche di austerità ordinate all’Europa del sud sono commissionate altrove, da chi non ci vive. L’Unione Europea è minacciata nella sua essenza da ciò che avviene in economia. E’ sprofondata per gran parte in un programma fallimentare. La crisi che ha inghiottito il mondo è nata negli USA, ma ha avuto l’impatto più devastante in Europa. La finanza sconsiderata si è data alla pazza gioia dopo che Reagan ha rimosso i controlli  sulla finanza e sulle assicurazioni. Ma negli Stati Uniti la ripresa è stata più rapida grazie alle politiche per la crescita. Invece l’Europa ha la pretesa di un riscatto attraverso l’austerità, che è per sua natura avversa e contraria alla crescita. Le elite finanziarie europee hanno scelto linee fallimentari tanto quanto quelle dell’America degli anni trenta. Anche in Giappone il Primo Ministro le sta revocando. Per ridurre il deficit non serve l’austerità, ma il rilancio della crescita. Gli enormi deficit dopo la seconda guerra mondiale scomparvero grazie agli investimenti. Così fece Clinton, o la Svezia quando dal ’94 al ’98 ebbe una forte crescita del PIL.

“Invece la formula europea prevede di ridurre il deficit con tassi di crescita negativi: uguale austerità più recessione. E’ perlomeno bislacco,e non basta dire che i leader non se l’aspettavano. Perché? Quale idea economica guidava le menti? La nostra è infelicità data dalla scarsa qualità intellettuale dei leader”. L’austerità è una politica controproducente. Bisogna tagliare quando si cresce. E soprattutto bisogna chiedersi a cosa serve la spesa pubblica. Quando si parla di servizi e spesa pubblica si parla di giustizia sociale, di cosa si offre alle persone più vulnerabili. Lo Stato assistenziale, il Servizio Sanitario Nazionale, cioè le responsabilità pubbliche sono state minate. Bisogna andare oltre Keynes, e dare importanza agli impegni sociali. Keynes non si è pronunciato per niente riguardo alle disuguaglianze economiche o alle esternalità. Al contrario, il suo avversario Pigou ha insisto su concetti quali l’economia del welfare, il degrado ambientale, l’economia pubblica e le disuguaglianze. Persino Otto von Bismark nel IX secolo da conservatore qual’era ha detto molto più  di Keynes sul sistema assistenziale pubblico.

I tagli lineari al welfare vanno anche oltre Keynes, dato che non erano oggetto della sua attenzione. La buona economia riguarda anche il come e il che cosa  può funzionare e non solo gli obiettivi. L’economia dell’Europa è un disastro: la vita sociale è stata minata, la disoccupazione, giovanile e non,  si sta già trasformando in perdita di competenze. Domandando  cosa può permettersi un paese, l’Europa risponde che l’onere della vecchiaia non può essere sostenuto dallo Stato. Sbagliato! Adam Smith ne La Ricchezza delle Nazioni afferma che una buona economia politica deve porsi due obiettivi:

1. Fornire un reddito di sussistenza, o creare le premesse per poterlo trovare da soli

2. Fornire allo Stato entrate per erogare servizi pubblici.

Serve una riforma economica in Grecia, in Italia ed in altri paesi e l’aspetto peggiore è la riduzione della flessibilità proprio delle riforme, confondendo due agende diverse:

  1. Lotta all’evasione fiscale, ai privilegi e alla corruzione

  2. Austerità e tagli nella previdenza sociale di base.

Risultato: un rigore dissennato che ha amalgamato due terreni che vanno tenuti nettamente distinti, accorpando un’esigenza importante ad una follia mal concepita. “Serve una voce forte, univoca, un riesame profondo che non è iniziato. Scusate se ho parlato di economia, voi siete venuti a sentire di felicità. Ma per parlare di felicità in Europa, bisogna parlare di infelicità.”

Sen a questo punto offre al pubblico un momento di dialogo.

A chi domanda se mai arriveremo ad un indice unico della felicità, risponde che non si può tradurre la realtà con tutte le sue sfaccettature in un numero. 137, cosa vuol dire? Si apre a delle confidenze con il suo pubblico e rivela che nessun numero avrebbe potuto indicare come si sentiva, con quel dolore alla gamba che lo accompagna sempre e il cuore scosso dal tornare in Italia per la prima volta dopo la morte di un suo studente, un ragazzo italiano che seguiva da tanti anni. Giungere ad un numero è un esercizio senza speranza. Ciononostante, l’umanità non può sopportare la complessità, deve ridurla. La gente ha bisogno di un indicatore sintetico, per questo Sen ha lavorato  all’elaborazione dell’HDI.

Alla domanda sulla situazione delle donne in India alla luce dei recenti fatti di cronaca, risponde che avrebbe voluto vedere una tale ondata di indignazione sociale anche per gli stupri che le donne povere di bassa casta nelle campagne dell’India subiscono quotidianamente. Uno stupro di gruppo è un’azione terribile che merita la reazione sociale straordinaria che ha provocato. Ma Sen si sofferma sul fatto che le coscienze e l’immaginario collettivo sono stati così colpiti perché si tratta di una giovane studentessa di medicina del ceto medio e che una tale atrocità sia avvenuta in città.

A chi chiede se ritenga che il dibattito pubblico in Europa sia sufficiente ad assicurare la democrazia, risponde che questo non è il modo in cui funziona la democrazia: non c’è democrazia se le decisioni politiche sono prese dalle banche sotto la minaccia delle agenzie di rating. Vi è una lacuna profonda, questi errori potevano essere evitati attraverso il ragionamento pubblico e lo scambio di opinioni, che, secondo Habermas, sono il fondamento della democrazia.

Viene da un signore in là con gli anni la domanda sul possibile fondamento di una teoria del complotto per spiegare l’insensatezza delle politiche di austerità, viste come un inchino europeo al volere tedesco. Per Amartya Sen è una questione di grandissima complessità. Ripete più volte di non credere ad una teoria del complotto, ma ad una forte ambiguità: se la medicina è amara, allora vuol dire che fa bene. Ma se di fronte a un deficit la reazione è tagliare, allora non si cresce, e come si può quindi ripagare il debito?   Vi è una forte ambiguità tra chi rappresenta l’opposizione politica all’austerità. E l’Italia è in questo accomunata all’Inghilterra, dove il partito laburista si oppone poco, così come fa la sinistra italiana.

Serve un dialogo basato sulla conoscenza piuttosto che sull’etica. Richiama un testo che pur non essendo tra i suoi preferiti, ha un titolo dalla grande valenza: “L’obbligo morale di essere intelligenti”. O per meglio dire, vi è l’obbligo morale di essere informati. Stiamo assistendo ad una caduta della conoscenza: non si può scegliere se non si è consapevoli; al pari, l’austerità è un fallimento politico che neanche a destra trova molti consensi. Se è vero che nessun paese da solo può cambiare la situazione, è altrettanto vero che l’Italia avrebbe potuto essere più determinante se fosse stata animata da un pensiero più chiaro. Non è un solo leader o un paese che può riprendersi; pensiamo alla Germania, cresce, ma il suo export da chi sarà alimentato? Perfino Keynes ha sostenuto che, se tagli, tutto ti si ritorce contro, perché tagli i mercati dei tuoi prodotti.

È la volta di una giovane studentessa alla ricerca del come poter partecipare se i decisori tagliando le nostre possibilità dimostrano di non volere che noi studiamo, rendendo un privilegio l’accesso alla cultura e non lasciando spazio a quell’obbligo morale di essere intelligenti, allora come possiamo intervenire davanti a tale corruzione? Sen ha un tono solenne nel dire che niente ci impedisce di pensare. “Pensare è un contributo al ragionamento pubblico”. Contestualizza l’attuale momento ricordando la resistenza francese e Sartre, racconta di come il padre di sua moglie, Eugenio Colorni, direttore dell’Avanti, sia morto per resistere al fascismo. “E’ debilitante pensare di essere debilitati”. Le ricorda che le difficoltà ad accedere a strumenti finanziari o i tagli non le impediscono di istruirsi e che anche altri paesi hanno la convinzione di essere i più corrotti del mondo. Lo si crede in India, in Cina, non è peculiare dell’Italia.

Infine,  un giovane  domanda quale via sia l’alternativa da percorrere e come convincere i decisori a non sottostare al volere delle agenzie di rating. Sen ci ricorda che siamo agli sgoccioli di un’importante tornata elettorale e che qualsiasi elezione nazionale in questo momento deciderà la politica e la voce dell’Eurozona.

La soluzione  alternativa all’austerità? Un profondo ripensamento dell’economia italiana per ritrovare le giuste priorità e un contributo dell’Italia per cambiare le politiche europee per il bene di tutta l’Europa e non solo per l’Italia. Come convincere i leader? Sen ricorda che qualcuno in passato si è chiesto se è il popolo che non merita questo governo, o il governo che non merita questo popolo. Noi non ci siamo opposti, così anche i cittadini tedeschi hanno accettato passivamente il nazismo non opponendosi. Non il governo, ma la governance ha bisogno di un popolo reso più consapevole attraverso il dibattito pubblico. Va tenuta ben chiara la distinzione tra riforme economiche e austerità, perché c'è una differenza fondamentale. Le riforme economiche che servono non hanno nulla a che fare con l’austerità, spacciata come riforma quando ne è la negazione. è proprio questa chiarezza di pensiero che è andata persa se  c’è chi difende sia le riforme che l’austerità. “Forse sarò pedagogo, ma l’istruzione,  il ragionamento pubblico e i media hanno un ruolo cruciale. Dal punto di vista analitico e critico mi aspetterei di più dal paese di Gramsci”.

 

 

CONOSCENZA, CAPACITAZIONE, BENESSERE ESTESO

Incontro dell’Europa con Amartya Sen e Joseph Stiglitz

di Carlo Donolo, giugno 2010

Abbiamo di seguito delineato – sulla base della ricca documentazione e progettualità disponibile a livello globale – possibili collegamenti forti tra società della conoscenza (EU-Lisbona), capacitazioni (Amartya Sen), benessere esteso (Stiglitz) e sostenibilità dei processi socioeconomici. Proprio tali nessi esigono tra l'altro una consistente innovazione sul fronte degli strumenti di misura e valutazione fino al terreno della valutazione del genuine progress e dell'happiness percepita e perseguita. Sembra ragionevole pensare che la green economy a sua volta possa essere valorizzata al massimo nel contesto descritto dalle  parole chiave Conoscenza, Capacitazione, Benessere esteso e Sostenibilità.

1.                L'idea di società della conoscenza da Lisbona a EU 2020

Assumo l'idea di società della conoscenza (SC) più come idea direttiva e progetto possibile che come realtà già ampiamente realizzata. La Strategia di Lisbona come è noto e documentato dalle valutazioni stesse della Commissione Europea è stata realizzata solo molto parzialmente e in modo non convinto dagli stati nazionali. Con il sopraggiungere della crisi finanziaria l'ordine delle preoccupazioni è mutato. Il progetto è rinviato, malgrado il rilancio prevalentemente retorico fattone da Barroso con il documento Europa 2020.

Tuttavia l'idea di SC resta un criterio strategico per valutare le tendenze in atto a livello continentale e anche per disegnare i progetti necessari per uscire dalla crisi. La SC corrisponde in parte ad altre formulazioni correnti quali società dell'informazione, della comunicazione, società delle reti, come anche all'idea di seconda modernità. Assegnando alla conoscenza il posto centrale come fattore di produttività e di riflessività l'idea di SC sembra la più adatta a rappresentare la sintesi delle prospettive della nostra epoca. Essa fa appello alla mobilitazione delle conoscenze fondate e alle competenze (in quanto funzionamenti capaci secondo Sen) per il trattamento dei problemi contemporanei. Assegna a scienza e tecnica il ruolo di potenze produttive, ma esige anche un'opinione pubblica informata, illuminata e attiva, come la valorizzazione responsabile della forza lavoro istruita. E' più corretto parlare di SC che di economia della conoscenza, dato che questa ha presupposti sociali ed istituzionali e nessi molto stretti anche con il patrimonio dei beni comuni che rinviano necessariamente a una formazione sociale complessa. Solo un progetto neolib estremista può immaginare un'economia della conoscenza avulsa dalle sue basi e dal quadro sociale.

2.                Limiti

La SC certamente esiste in embrione e per frammenti, e soprattutto come un grande potenziale di sviluppo per le nostre società. Al momento si possono segnalare alcune criticità.  Scienza e tecnica sono riconosciute come potenze dirimenti, da cui dipende il futuro, ma hanno perso la loro legittimazione illuminista e positivista. Il pubblico le accetta e le subisce, magari le invoca, ma sospetta e ha paura, osservando come scienza e tecnica siano sempre più intrecciati con poteri finanziari ed economici nella forma di big science. I saperi sono progressivamente formalizzati (anche la conoscenza tacita viene formalizzata nei processi organizzativi), ma con ciò perdono le loro capacità riflessive e autocritiche. Il senso comune è fortemente reso irrazionale, in parte disinformato, in parte per reazione e per difesa (traumi e miracoli giocano un ruolo principale nella comunicazione pubblica), mentre nel caso di conflitti collettivi un sapere dal basso viene spesso contrapposto ai saperi ufficiali (si pensi al caso dell'alta velocità in Val di Susa e ad altre sindromi nimby).

Nelle politiche pubbliche, sebbene l'UE abbia dato un grande impulso al fondamento tecnico-scientifico delle scelte e del planning, fin troppo spesso – specie su materie sensibili - le decisioni sono assunte fuori e contro ogni valida conoscenza, comunque sulla base di dati incompleti, distorsivi o addirittura manipolati (esemplare il tema immigrazione). Anche i dati ufficiali più duri relativi a PIL o inflazione sono spesso oggetto di contestazione, con conseguente delegittimazione della fonte. Ma, più ancora, finora non si intravvede bene la connessione tra crescita del sapere fondato, crescita delle competenze, informazione razionale sui dilemmi sociali e sviluppo delle capacità. Molte capacità individuali e di gruppo vengono svalorizzate, o non trovano sbocco sul mercato del lavoro (caratterizzato ormai non solo in Italia da una sistematica sottoccupazione della forza lavoro più formata). Infine, il progetto stesso di SC non è sottoposto a un test di sostenibilità, limitandosi per lo più a riferimenti generici alla qualità dei prodotti o della vita.

3.                SC e capacitazione

La SC nelle sue tendenze reali ed anche nell'idea-progetto di Lisbona non ha ancora costruito raccordi sistematici con i processi di capacitazione. Prevale ancora una versione tecnicista (legata alle ICT) o produttivista (legata all'idea di innovazione). Il modello stesso della crescita è dato per scontato. Le preoccupazione per la sostenibilità dei processi sono secondarie e di contorno, non fanno parte della definizione.

Eppure negli ultimi anni si sono andate accumulando le evidenze empiriche sul nesso tra conoscenza e capabilities, tra innovazione e comunicazione pubblica, tra benessere esteso e sostenibilità (più avanti par. 7). Per le elaborazioni più informate si può fare riferimento al Sarkozy Report o al Report su sviluppo senza crescita. Consideriamo la prima relazione: SC-capabilities. Seguiamo lo schema di Amartya Sen: da risorse iniziali dell'attore (titoli e dotazioni), con la mediazione di fattori di conversione, si ottengono funzionamenti (comportamenti pratici) che sono una selezione di alternative possibili da uno spazio di capacità (libertà positive). Procedendo in modo un pò scolastico: quanto ai titoli, che sono diritti (e interessi legittimi) garantiti dall'ordinamento risulta molto importante la correlazione tra informazione e azionabilità. Più l'attore è informato e “cognitivo” meglio sa attivare i propri titoli. Quindi una parte della conoscenza entra nel processo come risorsa per attivare titoli. Le dotazioni sono l'insieme dei “beni” (comprese le caratteristiche personali) a disposizione dell'attore sociale. Essi comprendono beni in proprietà privata, accesso a beni pubblici, relazione e scambio con beni comuni o collettivi. Una ricca dotazione è un universo di beni per agire. Anche qui la formattazione cognitiva di tali beni è molto importante sul piano dell'efficacia. Inoltre sempre più – maturando la SC – i beni cognitivi o virtuali e i relativi artefatti diventano una componente importante e strategicamente decisiva. Diciamo: le dotazioni, anche in una società poco sviluppata, valgono poco se non sono assistite da risorse cognitive. Esse rinviano sia all'offerta sociale di informazione,e comunicazione, saperi in uso ed altro, sia ai processi di apprendimento individuale e collettivo che sono resi possibili. L'attivazione di risorse cognitive e motivazionali diventa essenziale per fare sviluppo e per la capacitazione individuale stessa. Ciò è ben documentato empiricamente. Quindi vediamo che la conoscenza (che in società complesse si articola in processi di valorizzazione,  in capitale umano, capitale sociale, capitale logistico (organizzativo) e capitale tecnologico) gioca un ruolo essenziale. Conoscenza ed apprendimento sono legati anche in rapporto alla dimensione normativa. Apprendere è capacità di seguire regole, e le regole (non entriamo nella differenza tra classi di regole) rendono possibile il consolidamento dell'apprendimento e il suo ulteriore sviluppo. Vediamo insomma che già a questo primo livello di osservazione (le risorse disponibili) la dimensione cognitiva è importante e sempre più.

4.     I fattori di conversione

Passiamo ora ai fattori di conversione. Il soggetto ha (dispone di, in qualche caso: è ciò che riesce ad avere)  risorse, cioè titoli e dotazioni. Tali risorse però nel momento attuativo (enactement) sono filtrati da fattori intervenienti: essi sono di natura sociale e istituzionale, ambientale in senso lato. Possono facilitare o impedire l'enactement dei beni disponibili in un processo di capacitazione. Qui ritorna il peso delle qualità degli ecosistemi (naturali e sociali) locali, la dotazione di beni pubblici, la struttura della comunicazione sociale, anche fattori ambientali generali come il grado di democraticità dei processi e il rispetto delle regole. Possiamo immaginare facilmente in Italia contesti incapacitanti nei quali i fattori di conversione giocano un ruolo pesantemente negativo (contesti degradati, violenza privata, disordine generalizzato). In ogni caso, anche tra i fattori di conversione i beni cognitivi accessibili e fruibili risultano strategici. L'infrastruttura cognitiva della società (locale) e i processi comunicativi assumono un rilievo crescente ed ormai decisivo.

5.     Funzionamenti e capacitazioni nella società della conoscenza

Se i beni del soggetto passano attraverso i fattori di conversione si ottengono funzionamenti, ovvero un agire empiricamente verificabile dotato di un certo grado di libertà. Si osservano cioè scelte o piani di vita non del tutto preformati o condizionati, e in rapporto a ciò osserviamo la libertà positiva effettivamente praticata e praticabile. Osserviamo che con alcune qualificazioni il discorso può essere trasferito dall'attore individuale a quello collettivo.

I funzionamenti sono gli spazi d'azione relativamente liberi (scelti con un certo grado di libertà) dal soggetto dell'azione. Tali scelte possono essere più o meno innovative o conformiste, ma in ogni caso devono contenere la traccia di un qualche apprendimento non del tutto adattivo, per mostrare di essere capacità. I funzionamenti selezionati dall'attore sono un sottoinsieme di un universo più ampio (tanto più ampio quanto più aperta, e ricca di opportunità è la società in cui l'attore è situato) di libertà positive e negative. Tale insieme più ampio è lo spazio delle capacitazioni (capabilities). I funzionamenti sono ciò che in concreto – nella situazione specifica e secondo le sue preferenze e abilità – l'attore sceglie di realizzare praticamente. E' evidente che lo spazio delle capacitazioni, sebbene analiticamente distinto, è però empiricamente connesso alle pratiche di funzionamento. L'insieme dei funzionamenti in un certo senso opera come una ricarica continua duello spazio delle capacità. Tale convalida pragmatica aggiunge una dimensione importante alla validità normativa dello spazio delle libertà che sono garantite istituzionalmente e che sono rese però anche praticabili o accessibili. Quando le libertà o capacitazioni così intese sono colte dalla prospettiva dell'attore si parla di opportunità. D'altro lato, le capabilities perfino nella loro astrazione o virtualità costituiscono un dato ambientale di grande rilievo che retroagisce sia sui beni iniziali accessibili al soggetto sia sui fattori di conversione empiricamente dati. Anche funzionamenti e capabilities rivelano una costituzione cognitiva forte. Rinviano a capacità (nell'uso corrente del termine, cioè come uscita da incapacitazione, secondo la definizione kantiana), skills, abilità di vario genere, pratiche d'uso di saperi taciti e formali, alla fine alla riflessività, cioè alla capacità di ritornare ricorsivamente sui presupposti del conoscere e del saper fare. Processo indispensabile per ogni apprendimento e specie per l'apprendimento di nuove preferenze.

La SC nella sua componente tecnico-scientifica contribuisce a strutturare e dotare lo spazio delle capacitazioni: ciò vale sia per il discorso dei titoli che per le dotazioni rese disponibili, e gli stessi fattori di conversione sono dipendenti dalla produttività sociale del sapere tecnico-scientifico. La disponibilità di beni cognitivi virtuali e di relativi artefatti (il caso prototipico: l'accesso la web) diventa dirimente.

Il discorso delle capacitazioni di Sen-Nussbaum (l'apporto della Nussbaum ai fini limitati della nostra esposizione consiste principalmente nell'argomentare sulla necessità di soddisfare bisogni essenziali (basic needs) come condizione per ogni ulteriore sviluppo e già per una questione di dignità o rispetto, su cui cfr. anche Sennett) vale per ogni società, dato che le variabili in gioco possono assumere tutti i possibili valori e combinazioni (dal massimo di incapacitazione e di illibertà fino al flourishing umano e sociale ipotizzato dalla Nussbaum). Ma nella SC tutti i passaggi che abbiamo accennati vengono innervati sostantivamente da conoscenze tecnico-scientifiche e gli spazi di opportunità sono sempre più costruiti da fattori tecnologici e logistici. Infine, ma questo è un tema che richiede un approfondimento distinto, nella SC la riflessività sociale è un fattore produttivo indispensabile richiesto sia dal fallibilismo della conoscenza pubblica (come definita nell'epistemologia contemporanea: Popper, Ziman, Latour), sia dalla continua osservazione delle varie retroazioni tra scienza, saperi in uso, planning, prevedibilità, precauzione e altro ancora.

Le stesse politiche pubbliche, che sono il cuore della produzione di risorse e di fattori di conversione, sono definite sempre più su basi scientifiche (database, standard, valutazioni d'impatto, certificazioni ecc.). Senza qui dire di più, appare certo che sia nella messa in opera di beni quali titoli e dotazioni, sia nella relazione dell'attore con fattori di conversione, sia infine nella selezione di funzionamenti da un universo di capacitazioni sia all'opera un complesso fattore sociale di riflessività che diventa la vera caratteristica non solo di una società aperta ma anche specificamente della SC.

4.                Come muta la nozione di benessere nella SC

Nella società industriale che ha preceduto la SC il benessere individuale e collettivo veniva agganciato al PIL: la crescita economica era garante dell'incremento di benessere. Essa permetteva anche di finanziare servizi di base per la riduzione dei rischi esistenziali (istruzione, abitazione, salute). Le forti diseguaglianze esistenti non venivano diminuite, ma con l'incremento del PIL tutte le posizioni si spostavano verso l'alto. La competizione tra posizioni prossime nella distribuzione del reddito e delle opportunità faceva parte del modello in cui la deprivazione relativa serviva ad alimentare il principio di prestazione. Questo modello ha raggiunto importanti risultati, ma da tempo è in crisi. Da un lato crisi fiscale dello stato, dall'altro profonde modificazioni della struttura sociale.

L'evoluzione verso la SC, avviata in Europa a partire dagli anni '80, accelera la crisi del modello e propone nuovi problemi e nuove formule. In particolare si osserva la crescita degli artefatti sofisticati che sono necessari per condurre una vita decente, e la crescita della componente del lavoro cognitivo sull'insieme delle forze di lavoro. Scienza e tecnica invadono ogni ambito della vita produttiva e sociale, aprendo nuovi orizzonti ma creando anche una eroe di effetti perversi che vanno trattati.

Le politiche pubbliche vengono razionalizzate e un approccio engineering si diffonde anche nelle istituzioni e nel policy making. La società diventa più tecnologica e i sistemi sociotecnici sempre più complessi. Problemi di coerenza e tenute interna diventano gravi, scompensi tra ambiti sono la norma, la convivenza tra vecchio e nuovo non è facile. L'aumento della disponibilità di forza lavoro qualificata, quando 1/3 della popolazione più giovane ha la laurea, produce una paradossale svalorizzazione del sapere produttivo. Nell'insieme le strategie di autorealizzazione degli individui diventano più problematiche e rischiose. Viene smentito l'assunto illuministico di una relazione unilineare tra crescita del sapere ed emancipazione. Del resto i guadagni di razionalità nel campo dei saperi scientifici e tecnici viene compensato da una crescita di subculture, tribù e stili di vita che corrispondono a logiche idiosincratiche e non convergenti. La comunicazione pubblica tramite traumi e miracoli preforma gli atteggiamenti delle masse e poco contribuisce alla stessa formazione delle preferenze collettive informate. Ne conseguono seri problemi per la tenuta democratica e quindi per la governance delle transizioni. L'aspetto più evidente è che la nozione di benessere diventa più articolata, comprendendo sempre più aspetti soggettivi (ovvero l'esperienza e la percezione del soggetto), ed anche diventando più esigente rispetto a condizioni di sistema quali la soddisfazione del lavoro, la creatività, la pluralizzazione delle opzioni nel corso della vita, e la qualità del contesto. La maggior parte della popolazione ormai è urbanizzata e di conseguenza si tratta di qualità urbane (che riguardano specie la relazione tra ambiente urbano ed ambiente antropizzato) e di disponibilità di servizi sempre più sofisticati. Senza questo contesto “ricco” anche il benessere individuale diventa povero e lo stesso reddito non può essere adeguatamente impiegato. Si parla allora (come nel Sarkozy Report) di benessere esteso, intendendo la crescita delle dimensioni o componenti dell'idea di benessere, che diventa plurale. Ciò, tra l'altro, corrisponde anche a un senso comune ormai diffuso.

Il benessere esteso richiede forniture di beni e servizi di qualità, vita in contesti “curati”, pluralità di opzioni disponibili, e quindi nei termini di Amartya Sen sia un incremento dei titoli che delle dotazioni e ancor di più una specifica cura (pubblica) dei fattori di conversione. Nello stesso tempo il benessere esteso è difficilmente compatibile con aree estese di marginalità e da qui la centralità della coesione sociale e territoriale con tutte le sue implicazioni redistributive.

Infine, risulta anche evidente che il benessere esteso è reso possibile dall'elevata produttività di tutti i fattori e specialmente delle risorse cognitive (si tratti di competenze specialistiche o di sistemi sociotecnici o di logistica). Ma la qualità costa – così come l'azionabilità dei titoli – e quindi cresce la forbice tra pressione sulle prestazioni delle istituzioni di garanzia del benessere e pressioni derivanti dalla crisi fiscale. In questo senso è in corso una transizione dall'esito molto incerto. E' certamente possibile una versione riduttiva della SC, con un welfare povero e marginale rispetto al modello fordista, o una versione magari più ricca ma fortemente tecnocratica. In entrambi i casi non si tratta di configurazioni stabili, già per la tensione inerente a questi sbocchi in sistemi democratici maturi. In genere la UE propone dei tentativi di sintesi tra le varie versioni, ma attualmente sembra prevalere un certo difensivismo. Il benessere esteso però non è una nozione ideologica, ma deriva direttamente dalle nuove forme sociali di una società industriale e postindustriale avanzata e fortemente cognitiva e tecnologica. Da un lato indica un obiettivo da perseguire, anche perché richiesto da gruppi crescenti della popolazione, dall'altro sembra indicare anche una soglia minima da soddisfare, se i frutti della SC devono essere aumentati e condivisi.

Le capacitazioni come processi che incrementano i gradi di libertà, autonomia e autorealizzazione e quindi anche la ricchezza collettiva e i potenziali di ulteriore sviluppo resta al centro di ogni strategia anche per far fronte alla crisi attuale. Vanno però meglio considerati i vincoli entro cui tale idea può realizzarsi e le condizioni della sua sostenibilità. Benessere esteso e capacitazioni concrescono dentro il quadro di una SC in cui si ha sempre più sviluppo e sempre meno crescita. Solo la valorizzazione di tutti i potenziali impliciti della forma della SC può permettere di intrecciare produttivamente capacità e benessere. Ciò, però come risulta evidente dal Report Prosperity without growth?, pone però seri problemi, al momento irrisolti: di tenuta nella transizione di un sistema economico orientato prevalentemente alla crescita insostenibile, e dell'elaborazione di una specifica strategia per tale transizione (cfr. par. 8).

5.                Sull'interazione tra sostenibilità e capacitazione

Si arriva così al cuore di tutti i problemi: il nesso sistemico tra capacitazione (C) e sostenibilità in funzione di una diffusione di condizioni di benessere esteso (BE). Assumiamo sempre che il quadro di riferimento normativo sia quello di SC, alla luce delle sue tendenze attuali ma anche dei suoi potenziali. In questo quadro andrebbe collocata anche la valutazione della funzione innovatrice e di apripista della green economy (su questo torneremo in un prossimo intervento).

Molti argomenti portano ad affermare che C e BE implicano problemi di sostenibilità. Se C e BE vengono sganciati sempre più dalla crescita si tratta di capire a quale modello di sviluppo è possibile fare riferimento. Per ora abbiamo solo indicazioni di principio e una serie di indicazioni strategiche, in cui si sottolinea la necessità della governance della transizione, senza che sia possibile al momento trovare un referente politico democratico cui affidare questa responsabilità. L'opinione pubblica è certamente diventata sensibile a questioni ambientali o al costo delle risorse, sono diffuse preoccupazioni anche legate al climate change, ma anche recenti indagini non mostrano che le preferenze si siano davvero riformulate, tranne in minoranze attive. Per esempio resta bassa la domanda di edifici energeticamente sostenibili, pur nella conoscenza dei loro vantaggi.

Intanto si può affermare che C e BE sono praticabili solo in condizioni di sostenibilità.

E possiamo intendere sostenibilità classicamente nelle sue diverse dimensioni. Importante oggi è anche quella finanziaria, che rinvia a questioni di distribuzione del reddito e di tassazione. La sostenibilità dei processi socioeconomici serve per garantire il rispetto del criterio della Brundtland, ma anche per garantire già oggi che i processi diventino più coerenti e convergenti. Processi più sostenibili sono processi che rendono disponibili maggiori risorse per un incremento del BE e delle C in direzione di una redistribuzione delle opportunità. Processi più sostenibili sono più egalitari nelle loro implicazioni. Al contrario processi molto insostenibili sono funzionali a una ripartizione fortemente diseguale dei redditi e delle opportunità. Queste affermazioni non sono campate per aria, ma certo sarebbe desiderabile una verifica statistica.

Sia il benessere che le capacitazioni valgono come potenziali e quindi hanno sempre anche una proiezione sul futuro che rendono possibile l’impossibile. Il benessere è esteso anche in senso bruntlandiano cioè verso le future generazioni (nelle costituzioni democratiche moderne gli interessi delle future generazioni sono protetti da una serie di dispositivi istituzionali e normativi, p.es. nella prima parte della nostra Costituzione repubblicana). BE e C richiedono più sostenibilità sia per ottenere effetti redistributivi ora, sia per garantire la redistribuzione intergenerazionale. Un benessere per pochi e insostenibile non sarebbe esteso in nessun senso del termine. Capacitazioni limitate o totalmente mercificate non permetterebbero il flourishing che resta la loro funzione più o meno latente, ma socialmente decisiva.

I processi sostenibili però sono più difficili di quelli insostenibili, almeno finché le mort saisit le vif, ovvero finché è prevalente la dipendenza dal sentiero. Non è pensabile una transizione alla sostenibilità senza un forte incremento di capacitazioni nella vita sociale ed istituzionale. La sostenibilità richiede la mobilitazione di tutte le possibile risorse cognitive e motivazionali. Un incremento delle capacità cooperative e organizzative, una governance multilivello ben più complessa di quella sperimentata finora. Quindi è difficile pensare alla sostenibilità senza C crescenti. Ma C crescenti in condizioni di maggiore sostenibilità corrispondono quasi alla definizione stessa di benessere esteso. In ogni caso sembra confermato anche da questi accenni che le tre categorie sono tra loro formalmente intrecciate, e che molto del futuro dipenderà da come tali intrecci saranno  visti, disegnati e messi alla prova.

6.                l benessere esteso e l'apprendimento di nuove preferenze

Possiamo avviarci a delle conclusioni provvisorie.

I nessi tra SC, sostenibilità, capacitazioni e benessere esteso sono ben argomentati in un gran numero di contributi internazionali. Restano ancora da esplorare molti aspetti, però, e in particolare: le relazioni di compatibilità e di reciproca esigenza tra capacitazioni e sostenibilità; e tra BE e sostenibilità. In un mondo globale queste variabili possono fiorire entro limiti: quelli demografici e quelli ecologici in senso stretto. A ciò va aggiunta la strettoia delle risorse finanziarie, che non sembra possa essere allentata senza importanti redistribuzioni e quindi  incisive riforme fiscali. Al momento non sembrano esserci le condizioni per un simile radicale mutamento, anche se potrà essere imposto alla fine da crescenti stati di necessità.

Un ulteriore vincolo alle possibili e desiderabili riforme, anche in ambiti più ristretti e in forma più incrementale, è costituito dalle attuali preferenze della grande maggioranza dei cittadini. Il senso comune certamente va mutando progressivamente, ma basta un rallentamento della crescita per indurre al più difensivo conservatorismo. In democrazia lo spazio del paternalismo è limitato, anche se molto è più ampio di quanto non ammesso nella teoria liberale standard (sul punto ora C. Sunstein). Per contro le preferenze dei consumatori ed anche degli elettori sono fortemente adattive, condizionate dal livello d'informazione, e strutturalmente calibrate sull'universo delle merci. E' possibile peraltro che nicchie di comportamenti più sostenibili e più capacitanti si estendano poco a poco. Lo stesso vale per l'ambito della green economy.

Modelli di vita alternativi e energie alternative e in generale una maggiore attenzione alla chiusura dei cicli han già ottenuto una certa audience e plausibilità. Tuttavia, è inutile nascondersi che la massa dei consumatori, anche se preoccupata per gli sviluppi, è attualmente orientata a modelli di consumo fortemente insostenibili ed anche marcatamente diseguali (Franzini 2010). Tutti gli interessi che sono saldamente legati al vecchio modello di sviluppo sono organizzati e ben difesi. La transizione appare quindi troppo lenta e reversibile. Gli impulsi provenienti dall'UE dopo Lisbona si sono molto attenuati ed hanno anche perso credibilità con i comportamenti di fronte alla crisi corrente. La questione di un mutamento preferenziale su larga scala si pone dunque come urgente, ma non possiede meccanismi autopropulsivi interni, anche per la confusione dei segnali che provengono dalla sfera pubblica. Questa questione viene posta con franchezza nel Report inglese già citato, ma in assenza di segnali politici, al momento ci si affida quasi solo alla forza degli argomenti e forse anche a imminenti stati di necessità. Non è chiaro però se in democrazia tutto ciò possa legittimare quelle riforme più incisive che sarebbero necessarie.

Si deve dire che il blocco delle preferenze consolidate è legato anche al fatto che la SC è rimasta in gran parte un progetto. Specialmente non c'è stato quell'impatto illuministico del sapere e della formazione che ci si aspettava. In una fase di investimenti formativi e di ricerca recessivi la situazione potrà anche peggiorare, specie in Italia. Sappiamo però che solo delle capacitazioni diffuse possono aiutare a modificare la struttura delle preferenze. I processi di apprendimento sono in primo luogo correzioni riflessive di preferenze ormai obsolete. Il ruolo della formazione, informazione e comunicazione diventa cruciale. Solo una SC più dispiegata e matura può consentire la diffusione di quelle capacitazioni che quasi spontaneamente e con minimo paternalismo inducono a una modifica delle preferenze. In questo senso lo sviluppo di argomenti ben articolati e documentati sui nessi funzionali e processuali tra SC, BE e C diventano essenziali. Questo fronte interagisce già con la dinamica della green economy e lo potrebbe fare ancora di più nel quadro di strategie consapevoli  per la SC.

7.                Riferimenti e link

  1. Wuppertal Institute, Towards sustainable development, monografia 42, 2010

  2. Commissione Europea, Europa 2020, una strategia per un Europa intelligente, sostenibile e inclusiva, 2010

  3. Gazzetta Ambiente,  La Grenelle dell'ambiente, n°4, 2009

  4. Commissione Europea, Documento di valutazione della strategia di Lisbona, 2010

  5. AA. VV., “Planetary Boundaries: Exploring the Safe Operating Space for Humanity”,  Ecology and society/vol14/iss2/art32

  6. Kubiszewski I., Joshua Farley, Robert Costanza, The production and allocation of information as a good that is enhanced with increased use,  Ecological Economics 69 (2010) 1344–1354

  7. Stiglitz, Sen, Fitoussi, “Sarkozy Report”, www.stiglitz-sen-fitoussi.fr/en/index/htm

  8. Sustainable Development Commission (UK), Prosperity without Growth?, 2009

  9. Green European Foundation, A Green New Deal for Europe, 2009, vol 1

  10. idem, Green New Deal et réponse éuropéenne à la crise, 2009, vol 2

  11. idem, Smart Industrial policy for Europe, 2009, vol 3

  12. OECD (Enrico Giovannini), Measuring the progress of societies 2008 e segg.

  13. Beck U., La società del rischio, Carocci 2000

  14. Castells M., La nascita della società in rete, Bocconi 2008

  15. Castells M., Comunicazione e potere, Bocconi 2009

  16. Donolo C., Sostenere lo sviluppo, B. Mondadori 2008

  17. Donolo C., “Per una società della conoscenza equa e sostenibile”, in Rapporto ISSI 2008, Edizioni Ambiente

  18. Franzini M., Ricchi e poveri, Bocconi 2010

  19. Giovannini E. e a., A framework to measure the progress of societies, OECD 2009

  20. Perniola M., Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi 2009

  21. Rullani E., Economia della conoscenza, Carocci 2008

  22. Sabau G.L., “Know, live and let live: Towards a redenition of the knowledge-based economy — sustainable development nexus “, Ecological Economics, 69, 2010

  23. Nussbaum M., Le nuove frontiere della giustizia, Il Mulino 2008

  24. Nussbaum M., Diventare persone, il Mulino 2001

  25. Sen A., Why We Should Preserve the Spotted Owl, da “Rationality and Freedom”; Harvard University Press; 2004

  26. Sen A., Sviluppo è libertà, Mondadori 2001

  27. Sen A., Il tenore di vita, Marsilio 1998

  28. Sennett R., Rispetto, il Mulino 2007

  29. Sennett R., L'uomo artigiano, Feltrinelli 2008

  30. Sunstein C., and Thaler  R. H., Libertarian paternalism is not an oxymoron, paper, The Law School, The University of Chicago         may 2003

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