RIFLESSIVITà NEL DOMINIO PUBBLICO

seconda modernità, beni comuni e diversità sociale

di Carlo Donolo; Rivista delle politiche sociali 2/Aprile-Giugno 2006

“ … costruiamo il dominio pubblico come l’ambito nel quale beni vengono prodotti, circolano e si riproducono in modo allargato acquisendo almeno in alcuni passaggi lo status di beni pubblici o comuni … ma sappiamo che il dominio pubblico è sotto assedio: dalle pretese di appropriazione privata di beni, da monopoli della comunicazione, da secessioni normative, da tutte le forme della sregolazione … alla fine, la riflessività come ogni forma di intelligenza dipende dalla ricchezza delle risorse comuni disponibili”

1. evoluzioni della riflessività                                                                              

2. “di dominio pubblico”                                                                                    

3. varietà per la riflessività                                                                              

4. indicazioni bibliografiche                                                                               


In questo contributo ci proponiamo di annotare alcuni punti cruciali per la relazione efficace tra riflessività (nella prospettiva di una modernità riflessiva), riconoscibilità di un dominio pubblico quale medium della riflessività sociale e delle capacitazioni individuali, e varietà delle risorse istituzionali disponibili quale premessa ed esito dei processi sociali nella società della conoscenza in evoluzione. Quanto alla riflessività, si esplora l’ipotesi della fragilità dell’ancoraggio all’individuo socializzato, e – pur senza abbandonarla – si indaga sulla possibilità di una riflessività affidata anche a processi reticolari e a costrutti artificiali e virtuali. Quanto al dominio pubblico, il luogo della genesi dei legami sociali riconoscibili, si ipotizza che la complessità contemporanea consista nella diluizione delle polarità costitutive della prima modernità (come quella tra pubblico e privato, tra stato e mercato e simili). L’ecosistema sociale oggi è caratterizzato da miscele, ibridi, chimere, intrecci e insomma da una policontesturalità (Teubner) ineliminabile ed irriducibile. Si dovrebbe indagare in che misura questa situazione può essere indotta ad evolvere in direzione di capacitazioni ed emancipazioni, possibili ma sempre sotto stress. Infine, la varietà delle istituzioni, cioè la varietà dei principi e fattori generativi di ordine/disordine sociale, viene postulata come l’elemento da cui dipende la possibilità di un circuito virtuoso tra riflessività, capacitazione, sfera pubblica. Senza una varietà adeguata alla complessità non è possibile una modernità riflessiva e neppure il governo dei processi – oggi in buona parte fuori controllo razionale – dai quali dipende oggi la sussistenza dell’uomo.  


1. evoluzioni della riflessività         

Non si è mai dubitato che per la sua stessa sussistenza la sfera pubblica richiedesse riflessività nei processi sociali. Allo stesso modo, nella polis, nella res publica romana e poi christiana, nella repubblica di Machiavelli come nel Leviatano di Hobbes si è sempre presupposto sia il dato di un bene comune costitutivo, sia l’esistenza di un luogo della riflessività per deliberare su di esso. Questo poteva essere posto nello stesso corpo sociale (al modo di Althusius e poi di Rousseau)  o delegato ad un organo specializzato, il sovrano più o meno monolitico inteso come mente della società. Con la modernità l’accento è stato spostato sempre più in direzione di un presupposto sociale, morale e cognitivo della riflessività sociale: l’individuo autonomo agente nel ruolo di cittadino. La riflessività restava sociale, anzi assumeva un carattere ancor più sociale e collettivo, ma la comunicazione era imperniata sulle capacità linguistico-cognitive di soggetti emancipati (come definitivamente fissato da Kant).  La riflessività sociale consisteva nella razionalità della comunicazione tra menti intelligenti e responsabili.

Si deve notare la inerenza reciproca di sfera pubblica, bene comune e deliberazione razionale. Non si da l’uno senza l’altro, almeno dove ci sono cittadini. In ogni altro caso abbiamo invece forme di paternalismo più o meno autoritario e più o meno benevolente, in cui il soggetto non deve riflettere, ma affidarsi. Sui presupposti classici ritorna in sostanza Habermas, con gli arricchimenti derivanti  dalla svolta linguistica e interattiva sintetizzati nella formula dell'agire comunicativo. Ma nel corso della prima e seconda modernizzazione si sono andati accumulando i dubbi sulla tenuta di quella triade fondante.  Ciascun membro è stata sottopposto a decostruzione e a verifica empirica. Infatti, le tre nozioni erano state assunte storicamente in senso consapevolmente normativo. Ma, sulla base di una qualche filosofia della storia evolutivamente ottimistica, il normativo poteva essere visto anche come la descrizione di stati del mondo non ancora reali, ma comunque accessibili e forse a portata di mano. Inequivocabile sembrava la tendenza verso il radicamento sociale e la stabilizzazione istituzionale di quel nesso.

Sebbene, già nell’800 e ancor più nel nichilismo novecentesco, vi fosse la compiaciuta constatazione del teorema di impossibilità di quelle tre forme sociali coniugate (forse più tramite Schopenhauer che Nietzsche, come nel Mann delle Considerazioni di un impolitico), sono state le esperienze storiche del ‘900 a mostrare che il mutamento sociale e il processo di civilizzazione non garantivano la tenuta di quegli assunti normativi. Proprio nell’interesse del progetto illuministico e progressivo è bene ripensarli. Non è quello che intendo fare qui, dove mi limito a segnalare alcuni passaggi di un’argomentazione sociologica al riguardo. Do per scontato che in società plurali e differenziate sia difficile rintracciare tramite una riflessività collettiva un bene comune, e che la stessa nozione di ciò che è pubblico, ovvero rilevante per la vita collettiva e quindi legittimo oggetto di comuni preoccupazioni, è diventata problematica e sfuggente. Almeno la coscienza collettiva fatica ad aderire a queste nozioni, e si accontenta per lo più di vedere la somma degli interessi come l’interesse generale.

E’ indubbiamente così, pur in presenza di un evidente paradosso: una società diventata più complessa (ci riferiamo qui solo all’Occidente, perché altrimenti il tema diventa intrattabile, si veda però Sen 2005) è una società – per definizione – che ha più cose in comune necessariamente di qualunque altra formazione storica precedente. Gli imperativi sistemici, i vincoli, le interpenetrazioni, sono tali che certamente vi è, anche se non rappresentabile, un bene comune, non normativo ma anche semplicemente descrittivo di stati del mondo indispensabili per la sussistenza. Allo stesso modo, ci si può chiedere  come sia possibile una società della conoscenza, basata su scienza e tecnica, senza una sfera pubblica che elabori e discrimini, verifichi e stimoli. Si può dire che questa contraddizione tra presupposti sempre più complessi della vita e dell’ordine sociale e vari processi e forze riduttivi definiscano lo stato attuale della società ipermoderna. Così bene comune (inteso come sintesi dei presupposti socialmente necessari), sfera pubblica (come luogo della decifrazione del rapporto tra mezzi e fini nel garantire la reale disponibilità di un crescente catalogo di beni) e riflessività (come capacità istituita di “chiudere il cerchio” dei piani individuali e collettivi): tutte sono esposte al riduzionismo ben descritto come flatlandia (cfr. de Leonardis 2006).

Qui però ripercorro brevemente solo un punto. La riflessività è affidata dal moderno al soggetto portatore di diritti. Poiché empiricamente il soggetto non è del tutto emancipato, ci si affida a un processo di apprendimento e maturazione (ripeness is all, e Schiller traduce: reif werden ist alles). Si chiama individuazione. Giusnaturalisticamente, si nasce con una dote di diritti naturali (la prima affermazione costituzionale sta nella Dichiarazione d’indipendenza del 1776), ma individui si diventa tramite l’esercizio di tali diritti. All’inizio essi sono solo una “dote”, una protezione, un potenziale d’azione. Quindi diventa importante il processo di socializzazione  come Bildungsprozess. Non a caso tema di tanti romanzi del ‘700 e ‘800 (sul tema Moretti 1999, e naturalmente lo studio di Benjamin sulle Affinità elettive).  La maturazione avviene nelle “formazioni sociali” (come dice la nostra Costituzione), naturali (o così dette) ed artificiali, dentro le varie personae fictae in cui si opera come attori sociali. In prospettiva normativa, si presuppone che tale sviluppo comporti una crescita delle capacità cognitive ed affettive: educazione sentimentale e acquisizione di competenze. Al centro è l’individuo che cresce e si porta progressivamente al livello di complessità (nella mente) della realtà sociale circostante. Vi deve essere un certo equilibrio tra i due ordini di complessità: quello della mente e quella sociale. Tante dispute ottocentesche e posteriori sui diritti politici vertevano su questo punto delicato. In genere con una preferenza per una riserva dell’intelligenza della complessità in termini cetuali e sessisti.

Se il processo formativo funziona l’individuo diventa persona (secondo una terminologia di origine antica, ma in effetti cristiano-moderna). Il termine è impiegato anche nella nostra Costituzione, come è noto. Quindi abbiamo un individuo socializzato e capace in quanto divenuto sociale. Due fattori sembrano decisivi: i processi di apprendimento (a partire dalla scolarizzazione) e la rete sociale di riferimento: in altri termini: il capitale umano e quello sociale disponibile all’individuo (Coleman 1990). Da qui riparte non a caso la proposta di Sen sui funzionamenti e le capabilities. Nei processi di apprendimento, ai fini di una maturazione individuale in rapporto ai ruoli e ai contesti sociali, diventa importante saper apprendere regole, ovvero sviluppare la capacità di seguire regole[1]: introiettare normatività per diventare autonomi. Altrettanto rilievo hanno i contesti: ambienti e si potrebbe dire territori capacitanti o incapacitanti[2].  Quando parliamo di ordine sociale ci riferiamo al concorso delle varie cités (Boltansky-Chiappello 2002), come agorà e sfere pubbliche,  ai processi di maturazione. Abbiamo il sospetto che proprio nei passaggi da una forma all’altra di modernità non funzioni (espressione brutale) il concorso tra apprendimento individuale e sociale: le forme del capitale socialmente utile (capitale come risorsa sociale, ma nella nostra società necessariamente sempre anche fattore di valorizzazione e da valorizzare economicamente) non collimano con le richieste sempre più esigente di una seconda e terza modernità. Per una parte la società si organizza a fare a meno di individui capaci, dall’altra l’individuo rinuncia a diventare autonomo. Si sviluppano alternative funzionali alle capacità umane e infine alla riflessività. Questo tema è stato percorso in lungo e in largo da Luhmann, ed anche Parsons vi si era avvicinato.

Noi viviamo in democrazie politiche e in economie di mercato. La democrazia vive di riflessività, il capitalismo no, o solo in certe forme. Crescono le organizzazioni intelligenti, che apprendono, ma il destino degli individui dentro tali organizzazioni è stato descritto come alienazione. Diciamo in una formula certo bisognosa di qualificazioni: al capitalismo serve una riflessività che possa essere “utile”, non la “chiusura del cerchio”. In sostanza, un fattore essenziale perché vi sia sfera pubblica viene indebolito. Era stato constatato sia dalla sociologia conservatrice à la … che da quella critica tipo Adorno-Riesman. L’individuo massa non cessa di essere un ente morale, ma diventa incapace di apprendere, piuttosto sviluppa grandi abilità adattive. Senza entrare in dettagli, cosa impossibile su un simile terreno, arrivo già alle conclusioni: le premesse emancipatorie relative all’individuo sociale in quanto capace di riflessività si basavano su assunti antropologici e su filosofie delle storia che non sono stati confermati. Dobbiamo riprendere un filo che parte da un’antropologia negativa, invece che positiva (Adorno 1969), dalle reali difficoltà di maturare. La società della conoscenza, per prendere il punto di massimo sviluppo, produce e richiede o presuppone sia ottundimento che abilità, molto adattamento e flessibilità, poco capacità di dire di no. Certo l’Italia probabilmente presenta il massimo spreco dell’intelligenza (tra salari di fame ai lavoratori dell'’intelligenza, fuga dei cervelli, costante flusso migratorio di giovani scolarizzati dal Sud al Nord, e stato deplorevole sia fisico che morale di tutte le istituzioni del sapere). Ma in forme più sublimi lo scarto tra intelligenza possibile come ragion pratica sociale e domanda sociale di capacità aumenta proprio nella società della conoscenza. Forse un segno anche nei movimenti francesi delmarzo-aprile 2006.

Arrivo al dunque dicendo che la riflessività ha un fondamento insicuro nell’individuo o persona, e che si stanno sviluppando forme alternative di riflessività a prescindere. Vediamo un po’ queste protesi della riflessività sociale. Vengono in mente termini come: sistema, istituzione, organizzazione, rete. Si tratta di costrutti sociali che corrispondono a tipi diversi di razionalità: autoconservazione, normatività e ordine, efficienza e comunicazione interattiva, rispettivamente. La riflessività sociale passa indubbiamente attraverso canali di questo tipo che prescindono, a un certo punto, dal riferimento a soggettività empiricamente date. Queste sono piuttosto risorse nella macchina. Come è noto, soprattutto Luhmann ha molto insistito su questo aspetto. E su quello correlato: dove viene meno la capacità riflessiva del soggetto può subentrare un sostituto funzionale a carattere artificiale, intelligenza del sistema uomo-macchina. La complessità crea ordine dal caos anche senza interventi deliberati e riflessivi. Nella rete si ha attualmente il potenziamento di questa possibilità, dato che rilevanti non sono i singoli nodi, ma la ragnatela complessiva che viene intessuta (Barabási 2004).

La ragione principale di questa evoluzione qui solo accennata (rinvio a “Reti come beni comuni”, in corso di pubblicazione su parolechiave) è che la complessità ambientale supera di molto le capacità (ma anche la complessità interna) della mente del soggetto. Perciò solo istanze sociali più artificiali, intricate e policontestuali possono farvi fronte. Il tema è al centro delle analisi di Teubner (Teubner 2003). E’ difficile però che l’individuo non si senta ancor più sperduto in questo groviglio e non vada alla ricerca di grandi semplificazioni: religiose, ideologiche o anche solo asociali (come tentativo di distaccare la propria esistenza da connessioni troppo impegnative; da qui la fenomenologia del privatismo, la centralità dei diritti proprietari, il ruolo del consumo, le forme del narcisismo di massa ed altro ancora). Una delle implicazioni poco indagate di questa recessione e secessione del soggetto (variamente decantata nel decostruzionismo apologetico del postmoderno) è che la combinazione tra opacità sociale (Habermas) da complessità e riflessività sociotecnica indebolisce la comunicazione pubblica e quindi l’individuazione dei beni-presupposto indispensabili. Alla fine lo stesso universo dei commons appare oscurato e con ciò la stessa ri-costruzione deliberata dell’ordine sociale.

Tuttavia, non si tratta di tendenze univoche. Restano ancora possibili coalizioni tra intelligenza di attori e intelligenza di processi (che è una possibile definizione dell’agire in rete o della rete come attore collettivo; cfr. Perulli 2000 e le analisi di M. Castells). Le potenzialità emancipatore e riflessive di Internet non possono essere sottostimate, come mostra anche il conflitto sui diritti proprietari in materia di conoscenza (cfr. il sito di creative commons). E perché queste coalizioni della ragione contro l’oscurantismo dei riduzionismi, fondamentalismi, e dei vari pensieri unici abbiano un qualche successo, sempre più rilevante diventa la varietà delle risorse istituite per la riflessività sociale (societaria si dovrebbe dire). Anche solo dentro la politica non basta più la classica divisione del potere o il pluralismo dei programmi in competizione. Né l’una né l’altro garantiscono un processo riflessivo adeguato, e infatti se ne ha una prova sia  nell’entropia della democrazia di fronte ai grandi temi epocali: crisi ambientale, Nord-Sud, confronti di civiltà, ecc.), sia nelle attuali difficoltà del processo di unificazione continentale in Europa.

Certamente riflessività richiede varietà istituzionale, e viceversa. Registriamo uno spostamento dal soggetto al costrutto, e si dovrebbe verificare se una “nuova alleanza” sia possibile tra queste forme della riflessività. Dobbiamo considerare però qualche altro aspetto prima di poter dire qualcosa sul lavoro reciproco di riflessività e varietà.

2. “di dominio pubblico”        

Certamente non vi è nulla di sostanzialistico nelle cose che consideriamo pubbliche. Dipende dalla loro posizione nei processi sociali e dal modo in cui costruiamo il mondo della vita. Ci sono anche opzioni valoriali, ma non metterei l’accento su esse. Piuttosto sullo sguardo lungo o corto, sui frames cognitivi usati, sul tipo di giochi che riteniamo appropriati ed essenziali. Il riconoscimento di una sfera pubblica in cui si muovono attori con effetti pubblici tramite un universo di beni comuni richiede una prestazione cognitiva. Così è da quando siamo usciti da società in cui sociale, politico e civile coincidevano. Dopo di allora (dopo l’era del contratto sociale), l’ordine sociale è un costrutto deliberato, così come l’ordinamento normativo dentro il quale vengono collocati in posizione di rilievo i beni pubblici. In definitiva saranno le costituzioni a dircelo. In più il conflitto sociale e politico, le lotte per l’egemonia, lo stesso progresso tecnico-scientifico incidono direttamente sugli statuti delle cose sociali, mutando regole, standard e funzioni. Così anche il discrimine tra bene privato e pubblico, stato e mercato, interesse pubblico ed interesse collettivo (di un gruppo significativo della società).

Quando poi la conoscenza, i saperi per fare su base scientifica, diventano costitutivi non solo del motore del cambiamento e dell’accumulazione, ma per la stessa costituzione dei soggetti empirici e poi anche dei costrutti  sociali e sociotecnici, il pubblico perde definitivamente connotati legati alla “natura” della cosa (un naturalismo in cui ricade sempre l’economia politica quando definisce i beni in base a loro presunte caratteristiche intrinsiche) e diventa una costruzione deliberata. Essa dipende dal grado di intelligenza sociale che abbiamo della posta in gioco con la cosa: si tratti di beni ambientali e culturali, di conoscenza circolante in rete, di capitale sociale o di normatività. Anche perché gli oggetti cui assegnare lo status sono sempre più artificiali e virtuali, un prodotto meglio opera del lavoro umano. Risultano da interazioni (azioni secondo Arendt), da progetti, procedure, standard setting e decisioni giurisdizionali. Con ciò il bene diventa anche più astratto, più sfuggente, fluttuante, ed anche meno facilmente riconoscibile. Di ciò approfittano i rent seekers dell’opacità sociale.

Costruiamo il dominio pubblico come l’ambito nel quale beni vengono prodotti, circolano e si riproducono in modo allargato acquisendo almeno in alcuni passaggi lo status di beni pubblici o comuni. Tutto quanto attiene alla conoscenza e alla comunicazione  è parte essenziale di questo ambito, per il valore sociale intrinseco di tali beni e per il fatto che essi ormai sono la risorsa principale per qualunque altro processo di valorizzazione e trasformazione. La conoscenza in comune è la base della riproduzione sociale. Le asimmetrie informative sono causa non solo di fallimento del mercato, ma anche del regime democratico. Esse in campo economico sono ammissibili solo per brevi tempi e secondo regole certe. Altrimenti generano abusi, posizioni dominanti e perdite di competitività. Soprattutto non sono ammissibili regimi regolativi protezionistici dell’asimmetria che ostacolino processi di capacitazione. Infatti, questa è l’unica vera fonte del valore, la forma attuale del lavoro come base di legittimazione anche di limitati diritti proprietari (sul tema cfr. Rullani 2004 e 2004b).

Il dominio pubblico è il luogo dove si può svolgere – in presenza di distribuzioni non marcatamente asimmetriche delle risorse – il Diskurs habermasiano (che quindi non ha solo una componente discorsiva, ma anche duri presupposti materiali e giuridici (sul punto accenni in Donolo 1997b). Tutte le teorie della giustizia, ed anche le strategie argomentative della justification (Boltanski-Thévenot 1991), girano intorno alla genesi del dominio pubblico: da una parte, presupponendolo come condizione dell’agire comunicativo (in verità anche di quello strategico), dall’altra mostrando come solo per suo tramite possano essere generate condizioni giuste ed elaborati criteri condivisi di giustificazione. Nel dominio pubblico circolano informazioni, conoscenza, frame, enciclopedie di motivi per agire e specifiche risorse comunicative che permettono un agire dotato di senso. Dovrebbe essere possibile mostrare che quel tanto di individuazione che riesce e non degrada in forme di autoreferenzialità narcisistica è possibile solo in contatto con il dominio pubblico (come hanno mostrato Erikson,  Wright Mills, Keniston, Bellah). Esso è fonte della normatività condivisa, tanto che l’obbedienza intelligente (Conte 2001, Donolo, Su ponti) è possibile solo ipotizzando un contatto – anche solo virtuale – con essa.

Ma sappiamo che il dominio pubblico è sotto assedio: dalle pretese di appropriazione privata di beni, da monopoli della comunicazione, da secessioni normative, da tutte le forme della sregolazione. Stato di diritto e regime democratico lavorano per la correzioni degli abusi, ma naturalmente, a causa dei loro deficit e per le stesse insufficienze della sfera pubblica, non sempre vi riescono e spesso vi aggiungono deformazioni proprie. I deficit del dominio pubblico hanno un immediato rilievo per la riflessività socialmente possibile. Ed anche per quella del soggetto individuale. Beck ed altri vorrebbero giustamente una modernità riflessiva, anzi più riflessiva di prima, perché storicamente è cresciuta la complessità da governare. Ma abbiamo visto che non possiamo del tutto contare sulle prestazioni di un ipotetico soggetto morale, nel suo isolamento, nel suo foro interno, come si diceva. Inoltre ci rendiamo conto delle difficoltà di una riflessività “di dominio pubblico”. Ritorna la folla solitaria, e con essa la nostalgia di epoche più “repubblicane”, anche se forse sono solo proiezioni su un passato idealizzato.

Molto allora si gioca nel soggetto in rete. Se intendiamo la rete come connessione, ibridazione, policontesto, per usare un’espressione di Teubner.  Occorre però leggere la rete non secondo il frame del mercato (come serie indefinita di scambi e transazioni), ma secondo la razionalità delle organizzazioni complesse, che sono tali in quanto sono un multiversum, una babele linguistica che attende alla propria autodecifrazione (per un’interpretazione della città contemporanea in questa ottica cfr. Donolo 2005a). Rete vorrà dire organizzazione razionale, mercato, agorà, contratto e institution building, non solo come stadi o fasi operative distinte, ma come compresenza efficace. I soggetti se immersi in questo tipo di ambiente vedono crescer le loro competenze comunicative ed operative, e non possono cavarsela senza un incremento della riflessività, ritrovando un certo grado di adequatio tra mente e ambiente in termini di complessità. Ma si tratta più di un potenziale che di una realtà acquisita. Dato che anche le reti sono sotto attacco esattamente delle forze che assediano il dominio pubblico. Questo del resto, dopo aver assunto storicamente la forma della piazza come luogo fisico della confluenza di menti (così ancora nei comuni tardomedievali, modello del “momento repubblicano” secondo Pocock e Q. Skinner, o Pettit), è diventato luogo-tempo virtuale, quindi nomadico, tra blog, collegi invisibili,  comunità virtuali e età dell’accesso. La sua natura reticolare lo rende molto resiliente, ma anche fragile, autopoietico, ma continuamente oscillante. Nel dominio viaggiano opinioni e saperi, preferenze e gusti, emozioni e algoritimi (sul loro intreccio in processi di planning cfr. Belli 2004). Come nel governo dei beni comuni, abbiamo una lotta (struggle, Ostrom), non una soluzione o un equilibrio. Non possiamo essere certi che la seconda modernità guadagni riflessività nella misura e nei tempi necessari. Il lavoro della riflessività sociale consiste precisamente nel trasformare la tragedy in dramma e di mantenere in costante movimento il dominio pubblico. Ciò presuppone soggetti capaci à la Sen, un universo di libertà positive, generative a loro volta di ulteriori capacitazioni. Detto in parole gergali suona chissà che, ma si tratta della riformulazione di un programma umanistico (sul punto cfr. soprattutto Nussbaum 2003), di una paideia collettiva, che suppone che la storia non sia finita, malgrado i tanti becchini al lavoro.

3. varietà per la riflessività

A questo punto possiamo tornare sulla questione della varietà (istituzionale) in rapporto alla riflessività. Non sono in grado di trattare l’argomento, molto differenziato, se non in formato zippato. Spero almeno che la frugalità del testo aiuti il lettore a fissare gli elementi essenziali per una riflessione comune. 

Sappiamo che normatività, riflessività dell’attore, apprendimento, sono interconnessi. Possiamo aggiungere che solo in presenza di una sufficiente o soddisfacente varietà di semantiche, principi costitutivi e di ordinamenti differenziati, tutto ciò è possibile. La riduzione della varietà riduce quindi l’ambito dell’apprendimento possibile, depaupera il capitale sociale, riduce i motivi per l’azione, alla fine gli spazi di libertà e di autonomia.

C’è o ci sarebbe varietà se ci fosse un effettivo pluralismo dei principi organizzativi dell’azione sociale, se tra tali principi ci fossero limiti mobili[3] e in parte definiti in via competitiva, se la pluralità e la varietà fossero in funzione principalmente del potenziamento delle capacità individuali e collettive che sono la risorsa cardine per la crescita, lo sviluppo, la sostenibilità e la competitività globale. Per varietà istituzionale intendiamo, quindi, la genesi e stabilizzazione di principi organizzativi differenti (una differenza che faccia differenza, secondo l’espressione di Bateson), tali che la riproduzione (e l’ordine) sociale venga a dipendere più dalla disponibilità di tale varianza e dalle forme di cooperazione tra principi distinti ed anche formalmente avversi, che dalla riduzione ad unum, ovvero dall’affermazione di un unico imperativo che elimina tutti gli altri3.

Si noti che la varietà solo con il moderno diventa principio costitutivo dell’ordine sociale. La varietà è la coesistenza di principi organizzativi (tipi di regole, di standard, di pratiche, di capitale, di habitus) diversi e in principio incompatibili. Si tratta di un universo di differenze e di differenze che fanno la differenza. la varietà delle forme sociali ha a che fare con i beni comuni e con le istituzioni che li governano. In ultima istanza con la normatività4. Da notare: 

  1. tali principi sono - con lo sviluppo della divisione del lavoro sociale - incorporati in sottosistemi, tipi di organizzazione, assetti, ordinamenti, campi ed arene chiaramente distinti e ricostruibili a partire appunto da principi organizzativi differenziati.

  2. dentro questi ambiti si sviluppano e cristallizzano habitus corrispondenti e quindi disposizioni ad agire per attori individuali e collettivi e/o culture organizzative ed istituzionali distinte.

  3. nelle società complesse la varietà così intesa è costituzionalizzata e le sue espressioni sono istituite; la varietà diventa norma e le sue espressioni hanno valore normativo almeno nei limiti del campo di riferimento. La varietà è istituita e istituente.

  4. la varietà stessa organizza una divisione del lavoro più o meno cooperativa tra principi, campi e habitus; da queste configurazioni dipende sia la natura della crescita che la qualità del legame sociale.

  5. la varietà come principio costituivo e costituzionale è un bene comune; inoltre ha nessi, in gran parte da ricostruire, con l’universo dei commons, dai quali dipende e che alimenta5.

  6. il conflitto tra tipi è governato dal criterio-guida o imperativo della varietà stessa; l’esito del conflitto deve essere un incremento della varietà, non la sua riduzione.

  7. dal punto di vista fenomenologico è possibile distinguere la varietà come differenza dalla varianza o variabilità che è variazione di uno stesso principio organizzativo. Per l’ordine sociale solo la prima è rilevante e può ben essere in conflitto con la varietà apparente.

  8. la varietà istituzionale  corrisponde a tipi di razionalità sociale.

  9. è possibile costruire indicatori della varietà.

  10. nella società della conoscenza la varietà ha una forte componente cognitiva e pragmatica; ci sono qui le condizioni per un rapporto riflessivo privilegiato con la varietà.   

A partire da quanto detto nei paragrafi precedenti, si intende che la varietà è minacciata allo stesso modo in cui lo è il dominio pubblico e la riflessività. E appunto dalle stesse forze. Il paradosso ora è che mentre la società complessa richiede ed è in grado di produrre più varietà, è costretta a convivere con potenze riduzionistiche, le stesse che degradano i beni comuni. Ma cosa perdiamo quando perdiamo varietà? Ecco un possibile elenco non esaustivo: 

Proprio queste indicazioni, ci fanno intendere meglio come la governance stessa è resa possibile solo dalla cooperazione tra forme distinte di varietà, e che solo essa le richiede e forse contribuisce a riprodurle. Alla fine, la riflessività come ogni forma di intelligenza dipende dalla ricchezza delle risorse comuni disponibili. In un ambiente complesso, varietà e riflessività si coniugano in modo più intrinseco e stretto. E solo se le loro combinazioni avvengono nello spazio pubblico, in condizioni tendenziali di common knowledge, esse sono produttive di risposte all’altezza delle domande, e perfino di soluzioni pertinenti ai problemi. Se lo spazio pubblico è sotto assedio si impoverisce e a sua volta cessa di essere un ambiente adatto per gli effetti moltiplicativi della riflessività e della varietà. Quale cura per la misère du monde se non con varietà e riflessività nel pubblico dominio? Sarà possibile tradurre queste relazioni accertate in strategie politiche e in politiche pubbliche pertinenti? Le politiche sociali integrate di nuova generazione hanno bisogno di simili presupposti e sono in grado di contribuirvi? Come traslare sufficiente complessità e quindi varietà e riflessività nella formulazione delle politiche pubbliche? O dobbiamo rassegnarci a farci del male con riduzionismi di ogni genere, perché la riflessività non è adeguatamente istituita? Come dice Elinor Ostrom, il compito è sempre quello: convertire minacce in opportunità.                                           

 

[1] Si può mostrare che la violazione delle regole è socialmente spesso connessa a una crescente  incapacità a riconoscerle come tali, ed anche a seguirle. Questa incapacitazione  si osserva spesso nelle devianze adolescenziali e nelle forme della sregolazione sociale. Vi è poi un nesso fondante tra apprendere regole e apprendere saperi. Per sviluppi di questo argomento decisivo ai fini di ricostruire un’idea della riflessività come capacità individuale cfr. Donolo 2001 e Su ponti.

[2] Sul tema: in ottica territorialista (“territorialità attiva”) cfr. Dematteis-Governa, e Donolo 2006b.

[3] Si può rileggere qui la storia dei rapporti tra capitalismo e democrazia. Nel capitalismo vedo il successo di una forma organizzativa che si tende ad imporre a tutte le forme sociali, eliminandole o funzionalizzandole. La democrazia, viceversa, è stata la custode della varietà (in questo senso si può reinterpretare quanto diceva Bobbio a proposito della democrazia come tentativo di “domare il mostro”). Con la globalizzazione la lotta si riproduce su scala globale. Si può anche dire: per preservare la varietà occorre la crescita economica, ma la crescita riduce la varietà (epidermicamente: mcdonaldization); il rapporto tra capitalismo e democrazia è asimmetrico, lo è sempre stato, nel senso che la democrazia (finora) ha bisogno del capitalismo, ma non il contrario. Questo ha bisogno dello stato di diritto, possibilmente minimo, e magari di uno stato mercantilista. Sappiamo che la democrazia, come garante della riproduzione della varietà, non è compatibile con regimi di pianificazione autoritaria, mentre il capitalismo se la cava egregiamente con regimi autoritari o di democrazia depotenziata. E spesso li preferisce.

[4] Sul nesso beni comuni-istituzioni cfr Donolo 1997. In estrema sintesi: i beni comuni sono i fattori costitutivi del legame sociale. Essi sono esposti alla tragedia dei beni comuni. Le istituzioni (a partire dal contratto sociale o costituzione) sono la “soluzione” della tragedia. Ma le istituzioni stesse sono beni comuni e quindi anch’esse esposte dal rischio di degrado ed overgrazing. Ci sono beni comuni ed istituzioni (legittime ed efficaci) in quanto la tragedia sia trattata, governata, oggetto di riflessività e capacità negativa. Per questo processo riflessivo e ri-costituente del legame e dell’ordine sociale è indispensabile che ci sia (almeno) tanta requisite variety istituzionale quanta è richiesta dall’entità della tragedia. Per questi suoi nessi profondi con la vita delle istituzioni e le peripezie dei beni comuni la varietà è istituzionale. 

[5] Sul tema cfr. Donolo 1997, cap. 1.  

4. indicazioni bibliografiche

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